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Referendum Turchia: Ankara vira verso il presidenzialismo forte, ma la dittatura è lontana

by Paolo Mauri
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referendumAnkara, 18 apr – La Turchia domenica scorsa è andata al voto per cambiare la propria Costituzione e passare ad un sistema presidenziale come da sempre sostenuto dal partito Akp di Erdogan. Già a partire dal 2005 l’idea di un sistema di questo tipo, che cambiasse radicalmente l’assetto della repubblica turca, era stata presentata dall’allora Ministro della Giustizia Cemil Çiçek e sostenuta dal Primo Ministro del tempo Erdogan. La riforma ha subito numerosi passaggi prima di arrivare al voto di domenica nella sua forma definitiva: i previsti 21 articoli da modificare sono scesi a 18 e riguardano soprattutto la divisione dei poteri ed i compiti di controllo in seno alla repubblica.

Cosa prevede la riforma costituzionale che tanto sta facendo preoccupare le redazioni dei giornali (e qualche governo) europei? In realtà se andiamo ad analizzare attentamente gli articoli modificati ci si rende conto che la sedicente svolta “autoritaria” sembra essere meno seria di quanto paventato. Oltre alla modifica delle funzioni del Presidente, che diventa sia Capo dello Stato che del Governo accentrando così alcune competenze che prima erano separate, come nominare e rimuovere dall’incarico i ministri e il vicepresidente, e avocando a sé altre che erano proprie del Parlamento, come il diritto di emettere “decreti esecutivi”, la riforma prevede anche che gli elementi che di solito sono gli strumenti per imporre una dittatura, come la proclamazione e l’estensione temporale dello “stato di emergenza” è ora oggetto di approvazione parlamentare (cosa che sarebbe stata di difficile attuazione pertanto durante il recente tentato golpe del luglio scorso), e, caratteristica non molto “dittatoriale”, i decreti emessi dal Presidente durante lo stato di emergenza dovranno, straordinariamente, essere approvati dal Parlamento. Inoltre il potere stesso del Presidente viene parzialmente ridimensionato per alcuni ambiti come per l’elezione dei giudici nella Corte costituzionale: il Presidente infatti ne nominerà 12 su 15 mentre prima ne nominava 14 su 17 ed il Parlamento continuerà a nominare i 3 rimanenti. Degna di nota, e qui si vede la volontà di Erdogan e di Akp di tagliare definitivamente i ponti con la tradizione “militare” della Turchia (e quindi coi suoi principali avversari), è l’abolizione dei tribunali militari a meno che non prevedano di indagare sulle azioni dei soldati compiute in guerra e l’abolizione dell’obbligo di aver effettuato il servizio di leva per potersi candidare a qualsiasi carica politica; parallelamente gli individui con rapporti militari sono ineleggibili e non possono partecipare alle elezioni, denominazione che sembra alquanto aleatoria (che tipo di rapporti?), ma che serve ad Erdogan a marginalizzare ulteriormente i militari dalla vita della res publica, ed in questo senso potremmo dire “occidentalizzare” il Paese. Altri articoli che sono stati riformati ci sembra non virino verso una vera e propria dittatura come paventano i giornalisti europei, e qualche Cancelleria. La riforma dell’articolo 9 prevede infatti che ora la magistratura agisca in condizioni di “assoluta imparzialità” (ancora effetto golpe), e soprattutto quella dell’articolo 78 che prevede che per le elezioni presidenziali venga introdotto il ballottaggio in caso che il candidato non ottenga la maggioranza assoluta. Le funzioni del Parlamento restano quindi più o meno le stesse di una qualsiasi altra repubblica presidenziale: approvare, cambiare e abrogare le leggi; ratificare le convenzioni internazionali; discutere, approvare o respingere il bilancio dello Stato; nominare 7 membri del Supremo Consiglio dei Giudici e dei Pubblici Ministeri; usare tutti gli altri poteri previsti dalla Costituzione oltre ad avere la possibilità ora di monitorare il governo, il Presidente e il vicepresidente con ricerche parlamentari, indagini parlamentari, discussioni generali e domande scritte. Inoltre la riforma prevede l’aumento dei parlamentari da 550 a 600 con una legislatura estesa dai 4 a 5 anni (al pari di quella Presidenziale).

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Insomma la riforma costituzionale approvata con una maggioranza alquanto risicata (51,41%) accentra sì alcuni poteri che prima erano del Governo nelle mani del Presidente, ma non è molto diversa da altre forme di presidenzialismo che già esistono e sono ampiamente collaudate (e accettate). Il dato però interessante che emerge da questo voto è la distribuzione geografica del risultato: se escludiamo le regioni a maggioranza curda del Paese, che ovviamente hanno votato no (i curdi rappresentano il 15,7% della popolazione totale, non propriamente una grossa fetta della popolazione né, peraltro, del tutto marginale), si nota che le zone più “occidentali” (non solo per localizzazione geografica) hanno votato no: oltre ad Istanbul ed Ankara, la fascia “mediterranea” della Turchia, quindi quella più a vocazione europea, si è schierata contro la riforma proposta da Erdogan. La vittoria, che per alcuni può sembrare paradossale, gli è stata data dai voti dei turchi residenti all’estero, e quindi in Europa, ma questo non è affatto un caso. Queste persone, oltre a provenire in massima parte dalle zone rurali ed interne, più povere, della Turchia, hanno ancora un forte legame affettivo con la madrepatria e parallelamente, vivendo in occidente, percepiscono la realtà turca in modo diverso, come ogni emigrante che trascorre tutto, o la maggior parte, del proprio tempo al di fuori del Paese di appartenenza. Pertanto la Turchia di Erdogan viene percepita in modo distorto: da un lato i media turchi lo propongono come il più grande statista e presidente turco degli ultimi decenni, e del resto visto come si sta muovendo in politica internazionale con il cerchiobottismo tra Russia e Usa e la ricerca di prestigio che ha portato la Turchia a diventare interlocutore economico e commerciale con molti Paesi in via di sviluppo, non siamo del tutto estranei a questa visione, dall’altro i media occidentali, soprattutto dopo il tentato golpe, stanno dipingendo Erdogan come un “dittatore spietato”, un “radicale islamico”, generando quindi per reazione un moto di simpatia e benevolenza come sempre accade in questi casi. Non è un caso infatti che gli emigrati dai paesi islamici in occidente che prima non avrebbero mai considerato il radicalismo religioso come un’opzione valida politicamente, una volta insediatisi nel tessuto sociale europeo o comunque occidentale comincino ad abbracciare questa ipotesi, ed i turchi non fanno eccezione a questa regola.

Non è nemmeno un caso che Trump abbia telefonato ad Erdogan congratulandosi per il risultato ottenuto: il Presidente degli Stati Uniti sa bene che non può fare a meno della Turchia per controllare il Medio Oriente (ci sono le pratiche Isis e Assad da archiviare) e teme che Ankara si possa avvicinare troppo a Mosca, visti i recenti precedenti sotto l’amministrazione Obama, eventualità che non può permettersi. Come sempre accade, poi, quando le elezioni vengono vinte da qualcuno che è inviso alla politica di potere, arrivano le accuse di brogli, supportate dall’Osce che denuncia la validazione di voti su schede non timbrate, che fa da paravento politico agli avversari di Erdogan (kemalisti e repubblicani) che accusano Erdogan di brogli, anche se il capo della commissione elettorale turca (l’YSK) ha ribadito invece che le schede senza timbro sono valide, e che già in passato erano state ammesse dal governo turco.

Paolo Mauri

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