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Immigrazione: la soluzione si chiama sviluppo

by La Redazione
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progetto TransaquaRoma, 23 apr – Non si è ancora finito di contare i morti annegati nell’ultima tragedia dell’immigrazione nel Mediterraneo, che già l’intellighenzia sinistroide, radical-chic e progressista ha iniziato a specularci sopra come avvoltoi sul più ripugnante dei cadaveri. È fin troppo doveroso sottoscrivere l’appello recentemente lanciato dal direttore di questa testata per una soluzione militare del problema di quei subumani noti come scafisti, ma ci sia consentito dire che la doverosa e necessaria militarizzazione delle coste libiche è una risposta (giusta) ad un sintomo acuto.

Il problema, però, è cronico: non si può sperare di arginare un problema come quello dell’immigrazione se non si ripensa allo sviluppo in particolare dell’Africa, ma questo imporrebbe di ripensare radicalmnete il nostro modello di sviluppo ed i dogmi a cui siamo abituati.

Per capirlo, facciamo un passo indietro: nel 1985 un comunicato dell’Ocse riconosceva all’Italia il primato della generosità, con la destinazione del 0,40% del Pil allo sviluppo africano. Si trattava di cifre senza dubbio modeste, ma erano destinate a finanziare progetti che poi avrebbero attirato altri investimenti e, soprattutto, facevano dell’Italia l’unico paese occidentale ad avere qualche tipo di strategia per sviluppare il continente africano. Questa si concretizzerà nel 1988 con la creazione di un’autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) che comprendeva, sotto l’egida italiana, Gibuti, Etiopia, Kenya, Sudan, Somalia e Uganda.

In Etiopia, per esempio, c’era il progetto di sviluppo del Tana-Beles, ovvero una città-capoluogo, cento villaggi, 300 km di strade, 300 di acquedotti, un centinaio di ponti, un ospedale centrale con rete di ambulatori, un canale in parte in galleria, un aeroporto, una centrale idroelettrica e la messa a coltura di 190 mila ettari di terre incolte.

Ancor più ambizioso, sempre frutto del genio italiano, fu il progetto Transaqua, dall’impresa italiana Bonifica, del gruppo Iri, a partire dal 1972, ovvero un canale lungo 2400 Km che attingendo il 5% complessivo dagli affluenti del fiume Congo, scaricherebbe nel Lago Ciad 100 miliardi metri cubi all’anno, sufficienti a ripristinare la dimensione originale del lago e rendere verde quella che attualmente è solo un’arida striscia di terra.

Ricordiamo infine le aperture di Mattei ai governi socialisti panarabi, che ovviamente bypassavano del tutto la storica influenza britannica nell’area.

La storia, però, è andata in un altro modo: le nazioni che avevano aderito al progetto italiano di sviluppo sono state tutte destabilizzate, alcune (come nel caso della Somalia), sostanzialmente cancellate, mentre i potentati internazionali favorivano l’avvento al potere di alcuni dei peggiori figli di buona donna che il 20esimo secolo ricordi.

Peter Eigen, capo della Banca Mondiale per il Kenya, nel 1996 pubblica guarda caso un saggio anti-corruzione, in cui si spiega che i governi africani prendono mazzette per costruire futili cattedrali nel deserto che ai cittadini non servono a nulla. Pensiamo alle infrastrutture, notoriamente inutili. Il succo del discorso, è che i soldi vanno…dove sono presenti. Una grande scoperta che però è foriera di notevoli implicazioni politiche, dato che nel nome della lotta alla “corruzione”, per la “trasparenza”, per la “società civile ed i diritti democratici” si è innestata una vera e propria campagna planetaria di sradicamento dello Stato nazionale sovrano, che si articola lungo tre direttrici fondamentali (esemplificati nel saggio di Eigen):

1) L’intervento pubblico nell’economia impedisce la formazione di un “libero mercato”, che viene ostacolato dalla corruzione che impedisce al “merito” di essere premiato

2) L’intervento pubblico nell’economia finisce per favorire sempre “amici di amici” del politicante di turno, tutti invariabilmente corrotti e corruttibili, a scapito del “cittadino onesto che paga le tasse”

3) L’intervento pubblico nell’economia ha un alto impatto ambientale (pensiamo alle infrastrutture fisiche di base).

Liberismo, qualunquismo, ambientalismo: i pilastri politici e culturali utilizzati per fare accettare la soppressione delle sovranità nazionali. Ed infatti, Eigen conclude con l’auspicio di sempre maggiori competenze delegate ad organismi “indipendenti”. Ci ricorda qualcosa? Dovrebbe, perché è la nostra stessa situazione.

In particolare è l’ambientalismo a preoccupare nel caso africano, ovvero l’idea dei “limiti dello sviluppo” di Malthus concretamente applicata alla realtà. È una idea vecchia ed abbastanza stupida, che in effetti affascina molto i pasdaran della decrescita. Di fatto, le possibilità sono solo due: lo sviluppo, che implica anche l’incremento della produttività del lavoro, e quindi nuove tecnologie capaci di far risparmiare risorse rare o sostituirle; oppure, appunto, la decrescita la quale non sarà particolarmente felice, e che comunque non è minimamente sostenibile, perché si basa su un paradigma statico della scarsità.

Mentre lo sviluppo, almeno potenzialmente, si fonda sull’innovazione tecnologica, e quindi su un’idea elastica e flessibile del concetto di “risorsa”, la decrescita si fonda su una idea di risorse date, scarse, da preservare il più possibile. In pratica, se un naufrago su un’isola deserta ha con se le scorte di cibo necessarie per un mese, un ipotetico signor Sviluppo gli suggerirebbe di mangiare e darsi da fare per cacciare, pescare, coltivare la terra, raccogliere la frutta, costruirsi un riparo, mentre la signora Decrescita gli suggerirebbe di ridurre le porzioni ad 1/12 per sopravvivere per un anno, ovviamente compensando il minor apporto calorico con la sostanziale immobilità assoluta.

Con questo scherzoso esempio si tenta di far capire il nonsense dell’ambientalismo, una truffa che semplicemente si propone di contenere la popolazione mondiale e frenare lo sviluppo economico, demografico e spirituale delle nazioni in competizione fra di loro in quanto foriero, almeno potenzialmente, di cambiamenti sociali.

Ne “la nuova Justine” del nichilista anti-umanista De Sade, un personaggio (indicativamente, un alto prelato) riduce la questione ai minimi termini: “è meglio avere 30 milioni di sudditi resi docili dalla paura che 60 milioni di riottosi”. Non avremmo saputo dirlo meglio: questo è il destino che ci attende se non cambiamo completamente paradigma di sviluppo.

Non neghiamolo: le grandi opere comportano grandi ruberie? Si, di solito si. Impatto ecologico? Si, anche se trasformare l’agro pontino in terreno coltivabile non pare essere un brutto impatto ecologico. Interferiscono con il libero mercato? Si, il che è un bene, dato che appunto il “libero mercato” non se ne occupa. Possono essere inutili o comunque sovradimensionate rispetto alle esigenze nazionali? Vero, esiste questo rischio, ed il Giappone del boom immobiliare tardi anni ’80 ne sa qualcosa. Possono drenare risorse altrimenti utilizzabili? In senso finanziario, ovviamente no (quantomeno in uno Stato a moneta sovrana), in senso economico ovviamente si tratta di fare scelte politiche.

Si, si ed ancora sì. Questa è una scusa per dare retta a Pallante, Latouche o il Club di Roma? Questione di punti di vista. Chi scrive vede nell’umanesimo del lavoro di Giovanni Gentile l’unica vera alternativa al nostro sistema di sviluppo. Chi ha altri riferimenti culturali ed ideologici, fra nuove destre e vecchie sinistre, trarrà le sue dovute considerazioni.

Matteo Rovatti

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