Pretoria, 3 dic – La Saru, Federazione sudafricana rugby, annuncia di voler inserire una quota minima di giocatori di colore da far applicare alle squadre iscritte alla Vodacom Cup, il secondo torneo sudafricano più prestigioso dopo la Currie Cup. Le nuove norme, in realtà, non si fermano alla pigmentazione dei giocatori, ma impongono che questi siano 7 sui 22 convocati, che 5 di loro giochino dal primo minuto e che almeno 2 vengano schierati tra gli avanti, ovvero che ricoprano ruoli che abbiano parte attiva nel gioco di mischia. Un’interferenza a 360 gradi nelle scelte dello staff tecnico delle società, con imposizioni che colpiscono addirittura la natura tattica delle compagini. La prima risposta contraria è subito giunta dall’AfriForum, un’associazione a difesa dei diritti civili, la quale ha duramente criticato l’iniziativa paventata dalla Saru, sottolineando che tutti gli sport olimpici non possono avere regole discriminatorie nei loro regolamenti. L’AfriForum, a sua volta, è stata tacciata di poca credibilità da parte dei suoi oppositori, in quanto ritenuta un’associazione costituita quasi totalmente da boeri.
La vicenda, quindi, in Sud Africa assume i connotati dell’ennesima diatriba post apartheid e va a inserirsi in quel filone di iniziative che spingono per un’integrazione forzata, col risultato di ottenere spesso effetti contrari a quelli auspicati. Spostando la questione dal particolare contesto sociale sudafricano a un ambito sportivo generico, viene da chiedersi quali vantaggi possano mai apportare delle regole simili. Uno sport nel quale il colore della pelle costringe l’allenatore a scelte obbligate costituisce una discriminazione sotto tutti i punti di vista: etico, tattico e tecnico. L’unico vero metro di giudizio dovrebbe rimanere quello del merito, ma di fronte alle pressioni veementi delle frange più accese del ‘politicamente corretto’ il buonsenso scompare, lasciando posto al buonismo di facciata dietro al quale si celano nuove forme di discriminazione.
Francesco Pezzuto