Roma, 7 gen – Se davvero Facebook aiuterà a ‘selezionare’ le notizie per evitare la diffusione di bufale sul social network, abbiamo già il primo candidato dell’anno per la censura online: la Repubblica. Il quotidiano di De Benedetti ci ha provato, cercando di addossare alla Brexit l’ennesima di una serie di colpe che con il referendum non hanno nulla a che vedere, ma gli è andata piuttosto male.
La notizia è che i pendolari inglesi pagherebbero tariffe ferroviarie sei volte più alte rispetto ai loro colleghi europei, arrivando a spendere quasi il 14% del loro stipendio rispetto al 2-4% che si registra nel resto del continente. La colpa? Ovviamente della Brexit, secondo Repubblica, che addossa alla scelta degli inglesi di uscire dall’Unione Europea l’incremento del 2,3% nel prezzo dei biglietti, dovuto essenzialmente all’aumento dell’inflazione dell’1,2% a novembre rispetto al +0,9% del mese precedente, provocata dalla svalutazione della sterlina a seguito dell’allentamento monetario varato dalla Banca d’Inghilterra da giugno ad oggi. Una relazione a cascata, quella che evidenzia la testata del gruppo L’Espresso, amplissima ed utilizzabile pressoché per qualsiasi motivo, da legare o meno al referendum, al fine di portare furbescamente l’acqua al proprio mulino. La relazione fra deprezzamento della moneta e aumento dei prezzi non è infatti scontata, dovendosi considerare una serie di ulteriori fattori per spiegare l’inflazione. Uno di questi potrebbe essere, ad esempio, il boom degli acquisti di beni e servizi registrato proprio nei mesi successivi la chiamata alle urne, ma che Repubblica si guarda bene dal considerare.
Al di là del ‘trucchetto’ poco professionale, la verità è che il rialzo nei prezzi dei biglietti del treno non ha alcun tipo di relazione con la Brexit. Niente da spartire con il voto di giugno, in alcun modo. A sbugiardare Mario Calabresi e redazione è il intervenuto il Guardian, ben un anno fa. Risale infatti al 4 gennaio 2016 un articolo nel quale il quotidiano inglese denunciava che i passeggeri di Sua Maestà pagano sei volte tanto – guarda caso, proprio il multiplo utilizzato pretenziosamente da Repubblica – rispetto ai pendolari d’oltremanica. Il motivo era spiegato chiaro e tondo: dall’epoca della privatizzazione avviata dal governo di Margaret Tatcher e conclusa nel 1997, la scelta – specialmente negli ultimi dieci anni, circostanza riconosciuta anche dal redattore dell’articolo, sia pur in via del tutto incidentale – è stata quella di spostare il peso del costo del servizio dalla fiscalità generale agli utilizzatori effettivi. Niente più “servizio pubblico” come è inteso nel resto d’Europa, ma liberalizzazione totale e conseguente aumento delle tariffe per tutti visto che la concorrenza in regime di monopolio naturale è una contraddizione, sia dal lato teorico che da quello dell’evidenza pratica. A parziale compensazione dei disagi la promessa era di accelerare sugli investimenti, ma le infrastrutture non sono particolarmente all’avanguardia e di alta velocità – nel paese che ha inventato le ferrovie – non se ne parla fino almeno al 2026. Altro che Brexit, qui siamo ai miracoli del liberismo più spinto. E a Repubblica dovrebbero saperlo bene.
Filippo Burla