Roma, 9 nov – Può una legge sull’invio in formato elettronico delle dichiarazioni dei redditi causare una crisi istituzionale che rischia di far precipitare il paese nel caos? In Ucraina sì. Ma per capire esattamente cosa sta succedendo occorre contestualizzare lo scenario politico.
Zelensky, il Beppe Grillo d’Ucraina
L’attuale Presidente Volodymyr Zelensky è un ex-comico (vi ricorda forse qualcuno?) di origine ebraica diventato popolare grazie ad una serie tv ed eletto nel 2019 con una netta vittoria al ballottaggio contro il presidente uscente Petro Poroshenko. Anche lui come i grillini nostrani è arrivato al potere puntando più sugli slogan che su un programma chiaro e concreto. I suoi cavalli di battaglia sono la lotta alla corruzione e la pace in Donbass. Dopo un anno e mezzo di presidenza però nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale è stata rispettata.
La farsa della lotta alla corruzione
L’Ucraina è il paese europeo con il più alto tasso di corruzione ed è impossibile arrivare a rivestire un ruolo di importanza nazionale senza i soldi ed il sostegno di qualche potente oligarca. Lo sa bene Zelensky stesso che deve tutta la sua fortuna, sia come attore che come politico, all’oligarca Igor Kolomoisky. Kolomoisky, ebreo come Zelensky, è fondatore del colosso bancario Privatbank e proprietario di una serie di canali televisivi, tra i quali ‘1+1 Media’ dove Zelensky ha costruito la sua carriera di comico. Durante gli anni della presidenza Poroshenko, altro famoso oligarca, Kolomoisky viene espropriato della Privatbank e chiamato a processo per truffa ai danni dei correntisti del suo istituto bancario. Decide così di rifugiarsi in Svizzera ma non smette di interessarsi delle vicende interne al paese, così appoggia l’ascesa politica del suo pupillo televisivo Zelensky e riesce a liberarsi del nemico Poroshenko. Ergersi a paladini della battaglia contro la corruzione avendo come sponsor un oligarca accusato, tra le altre cose, proprio di corruzione è un paradosso piuttosto evidente.
Nessun passo avanti in Donbass
Le cose per Zelensky non vanno bene nemmeno con il Donbass. C’è da dire che la situazione ereditata dal suo predecessore era veramente problematica. Poroshenko ha infatti portato avanti nei suoi anni di presidenza politiche fortemente anti-russe che hanno contribuito a spaccare ulteriormente un paese dove i russofoni rappresentano il 30% delle popolazione. Ed è lo stesso Poroshenko nel 2014 a sottoscrivere, obbligato da un susseguirsi di sconfitte militari contro i separatisti filo-russi, il cosiddetto ‘Protocollo di Minsk’ che stabilisce le condizioni di pacificazione del Donbass. Tali accordi contengono condizioni quali la concessione di uno status speciale con ampia autonomia alle regioni di Donetsk e Lugansk, l’amnistia generale e lo svolgimento di elezioni sotto il controllo delle autorità separatiste, considerate come fortemente penalizzanti per Kiev.
Zelensky si ritrova così in situazione di svantaggio a livello diplomatico e pressato da un’opinione pubblica maggioritaria che da un lato non vuole piangere più soldati morti al fronte ma dall’altro non è disponibile a fare concessioni alla Russia, vista ormai come un nemico. Il Presidente ucraino decide di provare la via del dialogo e si incontra a Dicembre del 2019 con il suo omologo russo Vladimir Putin a Parigi. I due riescono a trovarsi d’accordo solo su questioni collaterali come un temporaneo cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri, ma non vi è nessun passo avanti reale per quanto riguarda il futuro del Donbass. Così Zelensky allo stesso tempo viene accusato di scarsa concretezza dai ‘pacifisti’ e di eccessiva accondiscendenza verso i russi dai nazionalisti, che pur non avendo un grande peso politico hanno un’influenza importante in ambito militare e capacità di mobilitare le piazze.
‘Servo del Popolo’ sconfitto alle elezioni amministrative
Dopo un anno e mezzo di fallimenti e promesse non mantenute arriva il conto elettorale per Zelensky in occasione delle elezioni amministrative di Ottobre. I candidati sostenuti dal suo partito (‘Servo del Popolo’, come il nome della serie tv che l’ha reso famoso) vengono nettamente sconfitti ovunque, non arrivando nemmeno al ballottaggio in nessuna delle principali città al voto (Kiev, Kharkiv, Odessa, Dnipro e Leopoli). Gli elettori delusi dell’ex-comico hanno probabilmente preferito restarsene a casa, l’affluenza alle urne si è infatti fermata ad un misero 36%. Bocciato dai cittadini a Zelensky non resta che aggrapparsi alle élite per mantenere la poltrona, come insegnano anche i 5Stelle in Italia. In un’intervista televisiva pochi giorni dopo il voto l’ex Ministro della Giustizia ucraino Elena Lukash profetizzava come dopo la netta sconfitta elettorale Zelensky sarebbe stato disposto a stringere qualsiasi compromesso con qualunque ambasciata estera pur di rimanere al potere.
Conseguenze di Euromaidan
L’Ucraina è un paese a sovranità nazionale estremamente limitata. Il bilancio statale si basa per oltre due terzi su prestiti esteri, senza i quali il collasso dell’economia nazionale sarebbe inevitabile. La rottura delle relazioni con la Russia ha condotto il paese ad una completa dipendenza dalle nazioni Occidentali ed in particolar modo dagli Stati Uniti. Subito dopo il golpe filo-Occidentale denominato ‘Euromaidan’ una della prime richieste al nuovo governo ucraino da parte di Usa e Ue fu la costituzione di istituzioni speciali per garantire la trasparenza nel settore pubblico e combattere la corruzione di parlamentari, giudici e alti ufficiali. Dietro i nobili intenti di facciata vi era in realtà la volontà di creare apparati eterodiretti capaci di porre sotto controllo il potere degli oligarchi. Ma questi, a differenza dei politici, non sono facili da piegare e così si arriva allo scontro istituzionale attualmente in atto in Ucraina.
La sentenza che accende lo scontro
La miccia è una sentenza della Corte Costituzionale che annulla l’obbligo di presentazione delle dichiarazioni dei redditi in formato elettronico e dichiara illegale per i cittadini accedere ai dati patrimoniali delle figure pubbliche del paese. Non solo, il capo della Corte Costituzionale Alexander Tupitsky dichiara che la Costituzione non contempla tribunali speciali, sconfessando di fatto tutte le istituzioni anti-corruzione volute e gestite dai partner Occidentali. La reazione di Zelensky è furiosa. Il Presidente ucraino parla di “una coalizione di delegati russi e alcuni importanti oligarchi ucraini che si sentono minacciati dalle attività delle nostre istituzioni anti-corruzione”, pone Tupitsky sotto accusa di associazione criminale e porta in Parlamento un progetto di legge per sciogliere la Corte Costituzionale. Il disegno di legge viene definito come incostituzionale da più parti e in ogni caso sembra non avere i numeri sufficienti per essere approvato in aula.
Il deputato Ilya Kiva del partito filo-russo ‘Piattaforma d’Opposizione’ chiede la messa in stato di accusa (impeachment) del Presidente accusandolo di “essere pronto a pulire i suoi piedi sulla Costituzione a beneficio di terzi”. Si fanno sentire anche gli ambasciatori dei paesi del G7 che criticano la sentenza della Corte Costituzionale con una dichiarazione congiunta dove si dicono “allarmati dagli sforzi intrapresi per annullare le riforme anti-corruzione che hanno seguito la rivoluzione del 2014”. L’Ucraina è quindi in preda ad un pesantissimo scontro istituzionale del quale è difficile prevedere sviluppi ed esito.
Lorenzo Berti
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