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Usa: meno di 24 ore al collasso

by Clearco
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Shutdown-thumbWashington, 16 ott – Mancano meno di 24 ore all’esaurimento completo dei fondi a disposizione del governo americano. E intanto le trattative tra Democratici e Repubblicani si trascinano per inerzia nelle due aule legislative. Se al Senato le parti politiche sembrerebbero propendere per una soluzione “tampone”, in grado di spostare il problema almeno fino a Gennaio 2014, alla Camera c’è chi fa addirittura il tifo per la catastrofe, come gli esponenti del Tea Party. E il tempo stringe, perchè già da stasera gli USA potrebbero attivare per la prima volta nella loro storia la procedura di Default. Che in soldoni significa: siamo al verde. Seguirebbe un immediato declassamento del debito federale. Ad ascoltare l’allarme lanciato dall’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), “Se il tetto del debito Usa non sara’ aumentato i nostri calcoli suggeriscono che i paesi aderenti, nel loro complesso, cadranno in recessione il prossimo anno’. Cosi’ come ‘sperimenteranno un forte rallentamento anche le economie dei Paesi emergenti”. Giusto per la cronaca, l’Italia è uno dei “paesi ederenti”.

Com’è stato possibile che la prima potenza mondiale sia arrivata al suo punto di non ritorno con tanta nonchalance? La tensione nasce da una radicalizzazione dei rapporti tra i due maggiori partiti in una situazione in cui il Senato è a maggioranza Democratica e il Congresso a maggioranza Repubblicana. Come nel 1994 e nel 2011, i Repubblicani usano il loro diritto di veto al Congresso per ottenere delle concessioni da parte di un presidente Democratico. Questa dinamica è praticamente normale in America. Ciò che invece non è normale è il livello estremo al quale si è spinta l’aggressività dei primi e l’ostinazione dei secondi. Che ha fatto diventare il dibattito sulla riforma sanitaria di Obama un vero e proprio campo di battaglia. Scrive Luigi Zingales su Il Sole 24 Ore: “In una guerra di nervi vince chi cede per ultimo. È facile prevedere che costui sarà Obama. Non solo è riuscito a scaricare sui Repubblicani il costo dell’impasse, ma ha la determinazione di chi combatte per la propria sopravvivenza politica. La riforma sanitaria è l’unico risultato tangibile ottenuto da Obama in 5 anni di governo, e probabilmente l’unico che otterrà durante la sua presidenza. Rinnegarlo significherebbe per lui distruggere la propria immagine per sempre. Questa disperazione gli dà un vantaggio strategico.”

Ma se Obama è disposto a tutto, non da meno si dimostrano gli eretici repubblicani del Tea Party. Che si dicono disposti ad affrontare il Default, se questo porterà ad una riduzione della spesa pubblica. “Dobbiamo compiere le nostre scelte guardando all’interesse di lungo termine degli Stati Uniti – dice il deputato del Tea Party, Morgan Griffith – come fecero i patrioti che nel 1776 sfidando la Corona britannica, anche allora venne causato gran danno all’economia delle colonie, vi furono polemiche e forti contrarietà, ma il risultato nel lungo termine fu la nascita della più poderosa nazione della Terra”. Alla base di questo scetticismo del c’è la convinzione che l’intera boutade sia un sistema per evitare una riforma della spesa pubblica. Nonchè una forte disillusione nei confronti dei “colleghi” repubblicani, i cui ultimi governi hanno visto la spesa centrale gonfiarsi a dismisura e gravare sempre più massicciamente sulle tasche della classe media, della quale il Tea Party è espressione. E dai banchi del Senato il leader Rand Paul tuona: “Usiamo le entrate fiscali per pagare gli interessi sul debito agli investitori stranieri, a cominciare da Cina e Giappone, dilazionando i pagamenti per Previdenza e Sanità grazie a un’amministrazione più accorta e in breve tempo risaneremo le finanze federali”. L’impasse sembra irrisolvibile. Di certo c’è che, se davvero tra ventiquattr’ore gli USA entrassero in default, le conseguenze sarebbero catastrofiche.

Le ultime due settimane di Shutdown hanno già causato, secondo le stime, un calo dello 0,4% del Pil. Il default decuplicherebbe il crollo, portando l’economia americana dalla stagnazione alla recessione. Il declassamento del debito spezzerebbe le gambe ai piccoli risparmiatori e i titolari di fondi previdenziali e di assicurazioni, detentori – in varie forme – di quasi metà del debito pubblico degli Usa. Anche ai creditori esteri non andrebbe meglio. Se il crollo fosse sufficientemente ripido, il dollaro cesserebbe improvvisamente di essere una valuta – rifugio. A quel punto il sistema avrebbe due sole chaches di salvezza: la prima, temporanea, sarebbe quella di riprendere immediatamente il pagamento del debito, ritardando però quelli ai cittadini, ai fornitori e agli enti locali. La crisi sarebbe scaricata sui ceti più bassi e sulle imprese, ma salverebbe Washington dal collasso. In ogni caso i mercati avrebbero piena consapevolezza dell’eccezionalità della misura, e inizierebbero a speculare sulla tenuta delle finanze federali. In pratica, la patria della speculazione diventerebbe la prima vittima della sua creatura.

L’unica altra misura a disposizione sarebbe quella di stampare altra moneta o alzare senza limiti il tetto del debito. In entrambi i casi, l’inflazione rischierebbe seriamente distruggere la credibilità del dollaro, ed innescare una nuova, devastante, recessione globale.

Francesco Benedetti

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