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Un enigma chiamato Roma: perché i partiti scappano dalla campagna elettorale?

by Alberto Vergottini
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Roma, 13 ott – Il primo a suonare l’allarme, con ampie motivazioni e e la consueta lucidità, è stato Guido Crosetto. Su Twitter, incubatoio digitale delle nuove candidature e su cui pure Calenda si sta muovendo per razionalizzare la sua candidatura/non-candidatura, rispondendo ad alcuni utenti e al giornalista Antonio Polito, l’autorevole esponente di Fratelli d’Italia ha spiegato per quale motivo non solo lui ma tutti i big della politica sono destinati a declinare l’offerta di candidarsi: non tanto il post-Raggi, che certamente sarà impegnativo visti gli anni di inerzia e di tendenziale mancanza di gestione, quanto per una motivazione se volete più stringente e drammatica, ovvero i poteri nulli del sindaco di Roma, la elefantiasi labirintica della macchina amministrativa e le continue indagini e attenzioni della magistratura tanto penale quanto contabile. Con queste premesse, non è difficile immaginare che i principali esponenti politici non ci stiano ad essere immolati su quello che potrebbe suonare come il de profundis delle loro ambizioni.

Roma: una irrazionale metastasi disurbanizzata

Crosetto ha dato voce a quanto in molti pensano e sussurrano; Roma è la Capitale d’Italia solo sulla carta, ma nei fatti, pur dopo la riforma del titolo V della Costituzione e il suo riconoscimento espresso nel nuovo testo dell’articolo 114 Cost., nei fatti è ancora un Comune, gestito come un Comune e con una mentalità da Comune. Un agglomerato enorme che si estende come una irrazionale metastasi disurbanizzata, dilaniata da problemi sociali, con ferite non solo urbanistiche ma anche criminali, corruttive e quartieri che rappresentano città nella città, zone del tutto slegate, culturalmente e politicamente, le une dalle altre.

Da tempo sarebbe attivo un Osservatorio parlamentare per Roma Capitale. Sarebbe, condizionale. Perché ad eccezione di alcuni convegni e di qualche studio, le azioni concrete di questo organismo composto da deputati e senatori sono rimaste fantasmatiche e del tutto evanescenti. Nei fatti la peculiarità strutturale dell’ordinamento di Roma Capitale, il riassetto capillare della sua macro-struttura amministrativa sono parole d’ordine rimaste inevase, materiale per qualche pubblicazione scientifica e basta. D’altronde la stessa composizione dell’organismo la dice lunga: parlamentari bipartisan ma tutti dell’area romana. Come se Roma non fosse la Capitale d’Italia ma solo uno degli 8000 Comuni che punteggiano lo Stivale. Una questione meramente locale. In queste condizioni, l’idea di volersi mettere alla guida di un macchinario ferroso, ossificato, senza veri poteri e con responsabilità che farebbero tremare le vene ai polsi di Bismarck, non deve apparire certamente suadente e accattivante.

La fuga della politica non è un bel segnale

Se le motivazioni e la generale anamnesi hanno un loro senso, va pure detto che non suonano come una giustificazione convincente. D’altronde se la politica si potesse e dovesse misurare solo con le imprese facili, agevoli, da tappeto rosso srotolato, potremmo dire che la politica stessa sarebbe inutile. Non parlo di una sfida nel caso delle elezioni romane, perché questo non è un gioco; parlo di una complessiva visione di gestione amministrativa, di un programma che parta dal posizionamento costituzionale dell’ordinamento di Roma e arrivi poi ai fattori delicatissimi che incidono sulla vita delle milioni di persone che a Roma vivono o lavorano o comunque transitano, dalla raccolta dei rifiuti ai trasporti pubblici, dal rinvigorimento del tessuto produttivo alla semplificazione delle pratiche burocratiche.

Ad oggi nessuno schieramento è stato in grado di produrre una propria visione organicamente programmatica della città: e quando dico programmatica intendo proprio il che cosa fare dell’ordinamento di Roma Capitale, quali funzioni strutturalmente capitali far governare con poteri eccedenti la limitatezza del mero ente locale. Perché potremo parlare quanto vogliamo di rifiuti, trasporti, urbanistica ma senza una rimodellazione complessiva, coerente con la riconosciuta ‘capitalità’ dell’ente, finiremo per parlarci addosso. Detto questo, la ritirata della politica è un segnale terribile. Nel momento in cui Buzzi pubblica il suo libro (Se questa è mafia, Mincione, 2020) e torna in tv per spiegarci come “funzionava” Mafia capitale, la fuga della politica finisce con il simboleggiare ed essere percepita come paura. Comprensibile ma allora si smetta di fare politica.

Cosa fare?

Crosetto ha ragione, ma non spiega cosa fare. Elabora una analisi convincente ma si ferma a questa, senza spingersi alla parte necessariamente propositiva. Le elezioni romane non sono solo un momento di competizione tra partiti più o meno radicati sul territorio, e non possono limitarsi alla politica di denuncia della singola voragine stradale o della disfunzionalità più o meno patente dei servizi erogati dalle società partecipate. A me sembra invece che i nomi circolanti, soprattutto nel centrodestra, siano un modo più o meno raffazzonato per creare una cortina fumogena atta a celare la vacuità, per non dire assenza, di un programma complessivo. Il candidato deve essere autorevole. “Civico” o politico che sia, deve lasciar intendere che non si tratta di una candidatura della disperazione, solo perché altri hanno rifiutato prima di lui. Una persona che sappia dialogare coi ceti produttivi e che esuli dal pantano “romanocentrico” sperimentato nei peggiori anni della politica capitolina.

Il primo passo, una volta individuato il candidato, è la costruzione di una classe dirigente. Sembra scontato, perché lo si sarebbe dovuto fare negli anni scorsi, ma ad oggi non c’è. Lo ha intuito felicemente Francesco Rutelli, con la sua Scuola di servizio civico. I partiti non ci sono ancora arrivati. Il secondo passo dovrebbe essere una “costituente” che assommi categorie produttive, associazioni, la sempre presente società civile, e classe dirigente politica e che nei fatti si presenti come una interfaccia tra le misure di ordine parlamentare (attuazione della riforma del Titolo V sull’ordinamento di Roma Capitale) e i problemi più minuti, che a Roma si può ben essere sicuri non sono mai minuti. In terzo luogo rivitalizzare i tavoli aperti presso i vari ministeri, penso ad esempio al Tavolo per Roma istituito al Mise e scarsamente frequentato da Roma Capitale. Non è un mistero che alcune funzioni siano a tutti gli effetti funzioni da ritenersi attratte dalla “capitalità” e come tali necessitanti di una gestione condivisa con lo Stato. Solo così la politica romana acquisirà consapevolezza di essere la politica della Capitale d’Italia.

Alberto Vergottini

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1 commento

Roberto 13 Ottobre 2020 - 6:04

Il messaggio di Crossetto è chiaro: su Roma insistono poteri che la politica non può contrastare e che per la politica è anche pericoloso cercare di contrastare.

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