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Dominique Venner: “Machiavelli e la Rivoluzione Conservatrice”

by La Redazione
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MachiavelliSospinta dalla Primavera francese, è di moda la Rivoluzione Conservatrice. Uno dei suoi teorici più brillanti merita di essere ricordato, anche se il suo nome è stato a lungo diffamato. In effetti è poco lusinghiero essere descritto come “machiavellico”. Può essere considerata come un’accusa di cinismo e di inganno.

Eppure, ciò che spinse Niccolò Machiavelli a scrivere la più famosa e più scandalosa delle sue opere, Il Principe, era l’amore e la preoccupazione per la sua patria, l’Italia.

Venne pubblicata nel 1513, esattamente 500 anni fa, proprio come la stampa “Il Cavaliere , la Morte e il Diavolo” di Albrecht Dürer: un periodo fertile! Nei primi anni del 16° secolo, Machiavelli è stato nonostante tutto l’unico a preoccuparsi per l’Italia – l’”entità geografica”, come disse più tardi Metternich. Ci si interessava di Napoli, Genova, Roma , Firenze, Milano e Venezia, ma a nessuno importava l’Italia. Per questo si dovette aspettare ben tre secoli. Ciò dimostra che non dovremmo mai disperare. I profeti predicano sempre nel deserto prima che i loro sogni raggiungano le imprevedibili folle in attesa. Noi e alcuni altri crediamo in un’Europa che esiste solo nella nostra memoria creativa.

Nato a Firenze nel 1469, morto nel 1527, Niccolò Machiavelli era un alto funzionario e diplomatico. Le sue missioni lo introdussero alla grande politica del suo tempo. Quel che imparò, e quello che soffrì per il suo patriottismo, lo spinsero a riflettere sull’arte di condurre gli affari pubblici. La vita lo aveva arruolato alla scuola dei grandi sconvolgimenti. Aveva 23 anni quando morì Lorenzo il Magnifico nel 1492. Nello stesso anno, l’ambizioso e voluttuoso Alessandro VI Borgia divenne papa. Rapidamente fece uno dei suoi figli, Cesare (a quel tempo, i papi si curavano poco della castità), giovanissimo cardinale e poi Duca di Valentinois, grazie al re di Francia. Questo Cesare, in preda a una terribile ambizione, non si preoccupava per niente dei mezzi. Nonostante i suoi fallimenti, il suo ardore affascinò Machiavelli.

Ma procediamo. Nel 1494 accadde un grande evento che avrebbe cambiato l’Italia per molto tempo. Carlo VIII, il giovane e ambiziosovenner2 re di Francia, fece la sua famosa “discesa”, cioè un tentativo di conquista che sconvolse l’equilibrio della penisola. Dopo essere stato ben accolto a Firenze, Roma e Napoli, Carlo VIII poi incontrò resistenza e fu costretto a ritirarsi, lasciando un terribile caos. Non era finita. Suo cugino e successore, Carlo XII, tornò nel 1500, questa volta più a lungo, fino a quando Francesco I divenne re. Nel frattempo Firenze precipitò in una guerra civile, e l’Italia venne devastata da condottieri avidi di bottino.

Sconvolto , Machiavelli osserva il disastro. Era indignato per l’impotenza degli italiani. Dalle sue riflessioni emerge Il Principe nel 1513, il famoso trattato politico scritto grazie alla malasorte del suo autore. La trattazione, con una logica stringente, cerca di trasformare il lettore. Il metodo è storico, si basa sul confronto tra il passato e il presente. Machiavelli dichiara convintamente che gli uomini e le cose non cambiano. Questo è il motivo per cui il funzionario fiorentino continua a parlare a noi europei.
Seguendo gli Antichi – i suoi modelli – crede che la Fortuna (l’opportunità), rappresentata da una donna in equilibrio su una ruota instabile, governi la metà delle azioni umane. Ma essa lascia, dice, governare l’altra metà alle virtù (le qualità dell’audacia virile e della vitalità). Machiavelli si rivolge agli uomini d’azione e insegna loro come regnare bene. Simboleggiata dal leone, la forza è il mezzo principale con cui conquistare o mantenere uno Stato. Ma bisogna anche avere l’astuzia della volpe. In realtà, si deve essere sia leone che volpe.

“Bisogna essere volpe per evitare le trappole e leone per spaventare i lupi” (Il Principe, cap. 18). Perciò la sua lode, priva di qualsiasi pregiudizio morale, ad Alessandro VI Borgia, che “non ha mai fatto nulla, e non ha mai pensato di fare qualcosa, altro che ingannare la gente e sempre ha trovato un modo per farlo” (Il Principe, cap . 18). Ciononostante, è nel figlio di questo curioso papa, Cesare Borgia, che Machiavelli ha visto l’incarnazione del Principe secondo i suoi canoni, in grado “di vincere con la forza o la frode” (Il Principe, Cap . 7).

Messo all’Indice dalla Chiesa, accusato di empietà e di ateismo, Machiavelli in realtà aveva un atteggiamento complesso di fronte alla religione. Certamente non devoto, egli tuttavia ne seguì le usanze, ma senza abdicare alla propria libertà di critica. Nei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, traendo insegnamento dalla storia antica, ha discusso quale sia la religione più adatta alla salute dello stato: “La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane: quell’altra [la religione romana] lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati” (Discorsi, Libro II, cap. 2). Machiavelli non arrischia una riflessione religiosa, ma solo una riflessione politica sulla religione, concludendo: “Io preferisco la mia patria, alla mia anima”.

Dominique Venner

(Trad. F. Boco)

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