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Anticapitalismo o Socialismo?

by Filippo Burla
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John Maynard Keynes

John Maynard Keynes

Roma, 3 giu – Chi scrive è persona che non esita ad usare la parola “Socialismo” per designare il proprio rapporto conflittuale con il sistema economico egemone nella nostra civiltà-mondo.

Anche volendo però rimanere all’interno del paradigma di stampo capitalista, sono tanti modi per vederlo, e la comprensione dei medesimi può anche aiutare a capire la storia passata e forse anticipare quella futura. In questo breve scritto ci occuperemo del confronto fra il marginalismo (modello largamente diffuso) ed il keynesismo (primario fino alla fine degli anni ‘70), per poi trarre alcune conclusioni di principio.

Il marginalismo si fonda su pochi, semplicissimi postulati:

  • Il “mercato” si autoregola sulla base delle aspettative razionali degli operatori economici, raggiungendo equilibri omeostatici (detti “Walrasiani”) fra domanda ed offerta ed è quindi intrinsecamente efficiente. Un “Mercato” veramente libero quindi non soffre di disoccupazione, bolle speculative o recessione, ergo, se lo Stato non interferisce, nel lungo periodo si realizzerà una ottimale distribuzione delle risorse fra gli attori economici.
  • La moneta deve prima essere risparmiata e poi investita, mentre qualunque iniezione ulteriore di liquidità è di per se inflattiva, quindi di fatto si tratta di una tassazione occulta che governi disonesti impongono a chi lavora e produce. In questo contesto, le banche hanno solo il ruolo di intermediazione finanziaria, sulla base della cosiddetta “Riserva frazionaria”, ed inoltre la Banca Centrale deve essere indipendente dal Governo.
  • I salari sono un costo per l’impresa che limita la crescita, indi il modo migliore per uscire da un periodo di difficoltà economiche è puntare sulla flessibilità del lavoro, sullo smantellamento dei diritti sindacali e sul contenimento delle retribuzioni.

Esiste però una seconda scuola di pensiero, quella fondata dall’economista John Maynard Keynes, che si fonda su una visione del capitalismo per certi versi opposta e per molti versi inconciliabile:

  • Che occupazione, crescita e salari dipendano dalla domanda aggregata (consumi delle famiglie + investimenti delle imprese + spesa pubblica + esportazioni – importazioni), ovvero che i redditi degli operatori economici non siano indipendenti, e che dipendano da quanto gli altri spendano.
  • Che il “mercato” non si comporti secondo leggi meccanicistiche, bensì seguendo fattori psicologici come la propensione generale al consumo o al risparmio che quindi non sia modellizzabile matematicamente.
  • Che per disinnescare una spirale recessiva sia necessario che la spesa pubblica sia più alta del gettito fiscale (deficit pubblico), ovvero che lo Stato immetta domanda aggiuntiva nell’economia reale, possibilmente attraverso il finanziamento di investimenti infrastrutturali di lungo periodo, che rimettano al lavoro i disoccupati ed inducano le imprese ad assumere in vista della crescita dei profitti monetari. Per questo, la Banca Centrale deve essere subordinata al Governo e calmierare i rendimenti dei titoli di Stato.
  • Che se viceversa si decide di puntare alla riduzione della spesa pubblica, all’aumento della pressione fiscale ed al livellamento dei diritti dei lavoratori, l’unico effetto macroeconomico sarà l’acuirsi della crisi.
  • Che, infine, la speculazione finanziaria debba essere contrastata con misure legislative e fiscali.

Quale dei due modelli risulti socialmente preferibile è del tutto evidente a chiunque.

Il primo modello, fondato sull’acritico elogio del “mercato” ha portato all’attuale situazione neoliberista, in cui gli interessi dei produttori (imprenditori, professionisti, commercianti, artigiani, salariati, ecc…) sono sacrificati sull’altare di un sistema finanziario del tutto autoreferenziale, che (soprattutto in Europa) sta sfociando nella pura e semplice tecnocrazia oligarchica politicamente irresponsabile.

Il secondo ha garantito dal ’44 al ’79, tramite l’applicazione di politiche dirigiste e protezioniste (con tutto quello che ne consegue ovviamente), il periodo di maggiore sviluppo che si conosca, in termini di PIL, di risparmio, di occupazione. Per questo motivo, Keynes è il punto di partenza indispensabile per uscire dall’incubo in cui siamo sprofondati soprattutto per colpa della nostra ignavia politica e della tendenza (non solo italiana) di dividersi in tifoserie contrapposte su problemi irrilevanti.

Partenza, ovviamente, non vuol dire arrivo. In altre parole, è assolutamente necessario uscire dalla gabbia eurocratica ed utilizzare la ritrovata sovranità monetaria per attuare quelle drastiche misure fiscali anticicliche necessarie a riassorbire la disoccupazione dilagante, associando ad un taglio netto e consistente della pressione fiscale un massiccio programma di investimenti pubblici in infrastrutture e capitale fisico, necessari ad incrementare nel lungo periodo la produttività. Queste, però, sono misure emergenziali per riassorbire la disoccupazione, ma poi risulterà necessario cambiare modello di sviluppo. Necessario perché lo Stato non può continuare ad essere visto come il proverbiale “Pantalone” che paga per i danni causati dai banchieri e dagli speculatori (creando un gigantesco problema di moral hazard), bensì come l’eticità collettivamente incarnata.

Innanzitutto, bisogna ripristinare il controllo pubblico sull’acqua, sulla produzione e la distribuzione dell’energia, sui trasporti, sulle telecomunicazioni e soprattutto sul credito, che va considerato come un’infrastruttura finanziaria dell’economia reale e come tale subordinata a criteri di stampo schiettamente politico. In secondo luogo, bisogna rifiutare in toto la retorica liberoscambista sulla circolazione internazionale dei capitali, delle merci e delle persone, di cui peraltro è imbevuta la costruzione europea. Infine, bisogna stravolgere il rapporto di lavoro attraverso la partecipazione dei lavoratori alla gestione tecnica delle imprese ed ai guadagni di produttività. Un sistema siffatto si può ancora definire capitalismo? O magari è già “Socialismo”, questa parola oramai depennata dal lessico comune? È ininfluente.

Matteo Rovatti

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