Roma, 19 gen – Un ristoratore accusa Selvaggia Lucarelli di averlo fatto chiudere dopo aver messo in dubbio la sua storia. Insomma, l’ennesima storia di indignazione, gogne mediatiche, e cultura del piagnisteo.
La storia di Mariano Scogliamiglio
Si chiama Mariano Scogliamiglio, è originario della Campania, ma vive ad Arezzo dove ha il suo ristorante. O meglio, aveva, visto che ha deciso di chiuderlo definitivamente. Un fallimento di cui incolpa, almeno in parte, Selvaggia Lucarelli, mettendo in parallelo la sua storia con quella di Giovanna Pedretti: “Anch’io sono stato vittima della gogna mediatica, anch’io esposto alla shitstorm dei dubbi di Selvaggia Lucarelli, come la collega suicida di Sant’Angelo Lodigiano”. I dubbi si riferiscono a quanto raccontato dal ristoratore, il quale accusava di essere “boicottato dagli aretini” perché gay. Secondo Scogliamiglio, “È cominciato tutto quando ho partecipato a 4 ristoranti di Alessandro Borghese e nel corso del programma è venuto fuori esplicitamente la mia preferenza sessuale, anche grazie al bacio che in trasmissione ci siamo scambiati col mio compagno”. La storia risale allo scorso aprile ed era stata riportata dai media, ma era stata commentata con scetticismo dalla Lucarelli: “Racconto ridicolo… si risveglia dopo tre anni e dice che gli aretini sono omofobi…Ma perché pubblicate ‘sta roba?”. Per poi rincarare la dose stroncando la raccolta fondi che il ristoratore aveva lanciato per salvare il proprio locale: “Se il problema è che sei gay e non che sei andato in crisi perché hai cambiato sede e per la pandemia, non è con la raccolta fondi che gli aretini cambiano idea”.
Le accuse a Selvaggia Lucarelli
Dopo le parole della Lucarelli, le cose per Scogliamiglio sarebbero peggiorate ulteriormente: “La raccolta fondi che avevo iniziato si è bloccata o quasi e si è accentuato lo scollamento fra me e la città. Basta i guardare i numeri dei soldi affluiti prima del tweet e di quelli dopo. La chiusura a quel punto era solo questione di tempo”. Così è arrivata la decisione di chiudere il locale: “Per carità, non ho mollato solo perché lei ha sollevato dubbi su quanto avevo detto a proposito dei clienti che disertavano il ristorante per il mio orientamento sessuale, ma certo anche quello ha pesato. Anch’io mi sono sentito nudo di fronte alla tempesta mediatica, capisco la signora che non ha retto al ludibrio ed è finita come è finita”. E aggiunge con un po’ di amarezza: “Al posto mio arriverà qualche altro ristorante multietnico, tanto ormai in quella zona sono tutti così. Pazienza, basta che nessuno poi si lamenti”. Poi ritorna sul tema della gogna social, lamentando la sproporzioni tra personaggi come la Lucarelli e la gente comune: “Persone come lei dovrebbero pensarci due volte prima di entrare a gamba tesa nella vita delle persone comuni. Loro al chiasso mediatico ci sono abituati, noi invece ci sentiamo esposti nella nostra intimità. E a me è andata bene, alla fine ho solo chiuso un locale, a fare gesti autolesionisti non ci penso proprio”.
Un circolo vizioso di vittimismo e indignazione
Al di là dell’esito tragico che ha caratterizzato il caso di Giovanna Pedretti, si può riscontrare un certo schema comune. Punto di partenza è infatti un certo narcisismo e vittimismo, peraltro declinati nell’ordine del politicamente corretto, d’altronde al centro delle storie dei due ristoratore vi erano temi comi quelli dell’omosessualità e dell’inclusione. Storie, però, che a un esame di realtà cominciano a naufragare e sgretolarsi, rivelando l‘ingenuità, se non la malafede, dei loro autori. Qui subentra un’altra dinamica social, quella dell’indignazione. Un cupio dissolvi nella deresponsabilizzazione e nel risentimento, con l’unico comun denominatore della cultura del piagnisteo, per la quale c’è sempre qualcun altro da incolpare e da accusare.
Michele Iozzino