Roma, 12 set – Tra i tanti effetti nefasti che la globalizzazione porta con sè, l’esterofilia è una patologia che affligge ormai troppe persone. Nella nazione del quadrilatero della moda importiamo discutibili stili nel vestire, dimentichiamo il nostro patrimonio naturale, storico e culturale per sognare vacanze esotiche o metropoli oltreoceano, ci ingozziamo sempre di più con cibo etnico di dubbia provenienza nonostante il resto del globo non sia minimamente in grado di scopiazzare quello che offre la semplicità della dieta mediterranea.
La sentenza Bosman e il boom degli stranieri nel calcio
Questa preferenza per tutto ciò che viene dall’esterno dei nostri confini ha colpito, con pessimi risultati, anche il mondo del calcio. Negli ultimi anni infatti, dalla sentenza Bosman (stagione 1995/1996) in poi il numero di calciatori stranieri è aumentato vertiginosamente: nella stagione in corso su circa 500 giocatori del massimo campionato, solamente il 40% è di nazionalità italiana. Già dal finire degli anni ’90 sull’argomento sono stati versati fiumi d’inchiostro, soprattutto su quanto questo processo penalizzi la nazionale, da anni a corto di campioni veri.
Meno conosciuto ma molto più preoccupante è la crescita dell’utilizzo di giovani stranieri nei settori giovanili delle squadre professionistiche. In uno sport dove i ritmi sono sempre più alti e la componente fisica è più rilevante rispetto al passato, si predilige a un ragazzo tecnico ma gracile quello magari più ruvido di piedi ma già strutturato. Parliamo di società che possono permettersi team di osservatori in tutto il mondo e che spesso vanno a pescare in altri continenti baby talenti, che poi già a prima vista tanto baby non sono. Se i casi Eriberto/Luciano e Taribo West sono i più conosciuti, fa riflettere che nazionali come Nigeria, Camerun e Ghana non fatichino a raggiungere medaglie e trofei alle Olimpiadi (nel calcio sono riservate agli under 23) e ai Mondiali Under 20, Under 17 ecc. ma che nessuna nazione africana sia mai arrivata a giocarsi anche solo una semifinale in un Mondiale.
Catenaccio contro tiki-taka, risultato contro bel gioco
Se quindi per i giocatori nostrani, sia giovani che meno giovani, lo spazio sul terreno di gioco è sempre meno, c’è un altro aspetto che sta snaturando una caratteristica comune a tantissime squadre italiane vincenti: la perdita d’importanza e la minore cura del sistema difensivo. Dalle giovanili di provincia ai professionisti, passando per i più improbabili mister delle categorie dilettanti, tutti provano a scimmiottare il tiki-taka proprio del Barcellona, stile di gioco che però non può prescindere da un elevatissimo tasso tecnico degli attori in campo. Così come molti in passato sono stati affascinati da un atteggiamento ultra-offensivo di zemaniana memoria. Vittorie? Poche. Gol Presi? Tanti.
Se i BioBetaBunker cantavano “Non penetrano i tedeschi quando gli azzurri chiudono / Non bucano i francesi quando gli azzurri bloccano / No, di qui non si passa: catenaccio / È l’Italia, l’Italia, l’Italia che difende” un motivo ci sarà pur stato. Battuta musicale a parte, naturalmente il catenaccio è superato, ma le imprese sportive più importanti, anche quelle di Sacchi, sono passate da squadre corte, compatte e difficilmente perforabili: vedi l’Italia del 2006 o la Juve che sta facendo collezione di scudetti. Discorso sicuramente scomodo per i palati fini devoti al calcio champagne, ma è un dato di fatto che siamo da sempre una nazione di difensori insuperabili (Maldini, Nesta, Cannavaro, Materazzi, Chiellini) e abbiamo avuto per un decennio abbondante il miglior portiere del pianeta (Buffon), ma non siamo mai riusciti a far convivere i giocatori con più estro (vedi le staffette mondiali nel 1998 Del Piero/Baggio e nel 2006 Del Piero/Totti).
Multinazionali straniere a zero tituli
Non ha portato miglioramenti importanti neanche il cambio di qualche proprietà societaria. Se da un lato l’ingresso di capitali stranieri ha contribuito a gonfiare i bilanci delle squadre (processo iniziato negli anni ’90 con l’avvento della tv a pagamento), dall’altro possiamo tranquillamente affermare che questo aumento del giro d’affari non ha permesso a nessuno di arrivare all’unico traguardo che davvero conta per chi fa sport: quello della vittoria. Roma e Milan sono di proprietà statunitense, l’Inter prima indonesiana ora cinese, il Bologna è in mani canadesi e la Fiorentina italo-americane. E’ di queste ora la notizia che un imprenditore del Qatar stia trattando l’acquisto del Parma, in passato già (quasi) finito sotto controllo sinico.
Nonostante ciò l’unica squadra che negli ultimi 9 anni ha cannibalizzato le competizioni italiane è stata la Juventus, gestita dalla famiglia Agnelli. Oltre alle vittorie sul campo, la squadra torinese ha contribuito in maniera importante anche alla causa azzurra, tanto che per un periodo si è parlato di ItalJuve. Solo la Lazio di Lotito, il Napoli dell’imprenditore cinematografico De Laurentis e il Milan (anno 2016, presidenza Berlusconi) con una manciata di Coppe Italia e Supercoppe Italiane hanno provato a contrastare questo monopolio. I più recenti successi internazionali invece sono vantati dall’Inter dell’era Moratti: Champions League nel maggio 2010 e Coppa del Mondo per club nel dicembre dello stesso anno. Squadra con pochissimi connazionali – gli uomini spogliatoio Toldo e Materazzi – ma che incarnava alla perfezione quel modo di giocare tipicamente italiano. Un confronto impietoso con l’ultimo decennio del secolo scorso quando sui tetti d’Europa salirono, anche ripetutamente, Milan, Juve, Inter, Lazio Parma, e Sampdoria. Nei primi anni del duemila, invece, euro-successi solo per le milanesi.
Sul mercato si guarda sempre di più all’estero, pochi mister che vogliano rinnovare e migliorare la nostrana filosofia calcistica, ancora “zero tituli” per le proprietà straniere. “ItalianS do it better“: anche dentro a quel rettangolo verde sarebbe il momento di riscoprirsi come italiani perché, in effetti, l’abbiamo sempre fatto meglio degli altri.
Marco Battistini
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