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Le cinque sostituzioni sono davvero un regalo alle grandi squadre?

by La Redazione
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cinque sostituzioni

Roma, 25 ott – Tra i tanti cambiamenti che ha portato con sè il ritorno del calcio versione Covid-19 c’è un argomento che sta dividendo più degli altri gli addetti ai lavori: le cinque sostituzioni a partita in sede delle 3 a cui tutti eravamo abituati. Infatti nello scorso maggio l’IFAB (International Football Association Board), organo indipendente con potere assoluto sulle regole calcistiche internazionali, ha concesso a ciascuna federazione la facoltà di recepire tale variazione per l’estiva parte finale della stagione 2019/2020 e per la totalità della durata di quella 2020/2021.

La normativa ha perciò carattere temporaneo e, se per la conclusione della scorsa annata trovava motivazioni nella condizione fisica degli atleti tutta da valutare dopo la sosta forzata, nelle elevate temperature e in un calendario particolarmente congestionato, per quella attualmente in corso ha più il sapore di un esperimento “per vedere l’effetto che fa”.

Avere l’asso in panchina

E’ curioso notare che fino alla seconda metà degli anni ’50 non erano previste sostituzioni. Si cercò di ovviare al problema dell’infortunio a partita in corso concedendo un cambio. Tre, invece, quelli autorizzati dal 1995. Nel calcio nostrano le cinque sostituzioni non sono però una novità assoluta: da qualche anno la norma è già operativa nel dilettantismo, dai polverosi campi periferici di seconda categoria fino ai più funzionali impianti sportivi della serie D.

Le componenti atletiche e mentali sono sempre più curate: una maggiore rotazione degli attori in campo garantisce il mantenimento di un certo ritmo agonistico e di una certa lucidità per tutti i 90 minuti di gioco. Non a caso si sente spesso parlare di quanto sia importante la capacità della squadra di gestire efficacemente e nel minor tempo possibile le fasi di transizione (attiva quando si recupera palla, passiva quando la si perde). Sfruttarle a dovere comporta un notevole dispendio psico-fisico.

Sono pochi gli allenatori che sanno utilizzare i “panchinari” come una risorsa scegliendo il giocatore tecnicamente più adatto allo sviluppo dell’incontro, quello che sappia trovare la giusta concentrazione nonostante l’esclusione o il ragazzo a cui basta un veloce riscaldamento per entrare in partita. Il meccanismo del cambio è una vera e propria arma tattica, che può cambiare volto alle partite e alla lunga influisce in maniera decisiva sull’andamento dei campionati. Il saper leggere la partita è un pregio non comune a tutti.

Il campione logora chi non ce l’ha

Tra le voci di chi contesta questa novità delle cinque sostituzioni se ne sono alzate diverse, e tutte sostengono favorisca i grandi club con a disposizione rose più ampie ed equilibrate verso l’alto. Vero è che qualunque allenatore sognerebbe di girarsi verso le proprie riserve e trovarvi un Morata o un Sanchez, tuttavia è innegabile che non è una modifica al regolamento di gioco a permettere alle squadre più ricche di essere sempre più forti.

Dalle 7 sorelle alla Juve figlia unica

Se a fine anni ’90 si parlava di 7 sorelle (Fiorentina, Inter, Juventus, Lazio, Milan, Parma e Roma) e il massimo campionato si svolgeva sempre all’insegna dell’equilibrio e dell’alternanza, nell’ultimo periodo spesso e volentieri abbiamo assistito a stagioni con verdetti scritti abbondantemente in anticipo, sia per l’assegnazione dello scudetto che per la volata alle coppe europee o per quella salvezza. Vedere nuovamente un Cagliari, un Verona o una Sampdoria campioni d’Italia è, a oggi, realisticamente impossibile.

Le vere cause dello squilibrio: altro che cinque sostituzioni…

Il divario che abbiamo oggi tra grandi e piccoli club è da ricercarsi principalmente nei fiumi di denaro che le televisioni a pagamento versano annualmente nelle casse degli “squadroni” a discapito delle realtà minori, a cui storicamente sono sempre rimaste le briciole dei diritti tv. Naturalmente il gap puramente finanziario aumenta anche in misura direttamente proporzionale ad altri motivi, quali la partecipazione nelle competizioni europee, i trofei conquistati e la capacità di attirare sponsor.

Un elemento che invece in passato ha aiutato le piccole è stato il fattore campo. Eravamo il paese delle realtà provinciali, degli stadi infuocati e del tifo che spingeva la palla in rete. Ora, anche a livello di mera contabilità, la voce biglietteria ricopre nei bilanci un’importanza marginale. E il trend delle ultime stagioni conferma questa inversione a U. Nel 2019/20 si è registrato il record di punti ottenuti in trasferta (superato anche il precedente del 2017/18): come volevasi dimostrare, vuoi per stadi sempre più vuoti, vuoi per curve sempre più “teatrizzate”, non esistono più campi in cui il pubblico è il dodicesimo uomo. Il tutto si azzera col distanziamento che rende i nostri amati gradoni vuoti e grigio cemento.

Discorso a parte meriterebbero i procuratori. Filibustieri nelle acque sempre agitate del calciomercato che si ritrovano a negoziare da una posizione di forza. Professionisti capaci di far percorrere carriere (stipendi) importanti a giocatori mediocri e che, con una fitta trama di rapporti personali, riescono a costruire squadre meglio di tanti direttori sportivi. Talvolta, purtroppo, quando l’interesse vira sul giovane appena maggiorenne della squadra minore (bassa serie A, serie B, Lega Pro) il rischio è quello di forzare tempi e situazioni, facendo leva sull’abbaglio del ragazzo attirato da lustrini e paillettes della grande squadra. Il procuratore prende la commissione, lo “squadrone” brucia il possibile talento ritrovandosi sballottato a prestito e la “squadretta” monetizza molto meno di quanto avrebbe potuto.

Come succede anche in contesti diversi e dannatamente più seri, una volta intercettata, la contestazione viene volutamente incanalata verso la direzione sbagliata. Se vogliamo curare davvero il pallone italiano concentriamoci sulle cause e non sui sintomi, tutto il resto sono inutili chiacchiere da bar.

Marco Battistini

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