Anche da un punto di vista calcistico, il match appare denso di rimandi: pensiamo alla mitica semifinale dei Mondiali del 1970 in Messico, alla finale dei mondiali di Spagna, nel 1982, alla semifinale di Germania 2006. Match storici, vittorie leggendarie della nostra nazionale, che in quei successi condensava il trionfo di una mentalità, di un carattere, di una storia. La potenza simbolica del calcio è sempre stata questa, ovvero il fatto di saper condensare narrazioni extra-sportive. Accadeva così che l’Italia calcistica rappresentasse il pragmatismo, la tenacia, la furbizia, la Francia l’eleganza intellettuale del calcio champagne, l’Olanda la creatività libertaria e un po’ capellona del calco totale, la Germania l’organizzazione e la fisicità, il Brasile il calcio fantasioso, circense e un po’ indolente, le nazionali africane un calcio tutto fisico ma privo di disciplina tattica e così via. Dietro gli undici uomini che scendevano in campo si era soliti vedere, magari in modo un po’ convenzionale, il carattere di tutto un popolo.
Ora, però, tutto questo è finito o sta finendo. Se i ghanesi Thomas e Rose Barwuah avessero deciso di emigrare a Düsseldorf anziché a
Quello che infastidisce, tuttavia, è l’inutile e retorica enfasi posta sul match dagli stessi media che per anni ci hanno presentato i Balotelli e i Boateng come i battistrada della “nuova” nazionalità. Insomma: se si vuole essere cosmopoliti bisogna esserlo fino in fondo, con coerenza. È troppo comodo operare per la decostruzione della nazionalità e poi mantenere quei riferimenti simbolici che alla nazionalità fanno riferimento solo perché le masse vi sono irrazionalmente attaccate. Cosmopoliti, siate coerenti: abolite le nazionali di calcio.
C’è del resto chi già da tempo si è lucidamente incamminato su questa strada. In un libro sulla storia della narrazione nazionale fra Risorgimento e fascismo (Sublime madre nostra, Laterza) l’autorevole storico Alberto Maria Banti lamentava la permanenza del discorso nazional-patriottico nel lessico sportivo che «continua a valorizzare in modo parossistico le imprese dei “nostri” atleti». Continua lo storico: «Quando gioca la “Nazionale”, gli stadi e i giornali sportivi si trasformano in uno dei contesti di massima persistenza e di massima valorizzazione dell’identità nazionale, col suono dell’inno di Mameli, il tripudio di bandiere tricolori e il confronto stereotipato tra il genio calcistico italiano e le modalità di approccio delle altre “scuole calcistiche nazionali, la cui differenza è spesso fatta risalire al presunto effetto di diversi “caratteri nazionali”».
Adriano Scianca
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