Roma, 17 nov – Italia-Germania è un match che stimola ricordi e riferimenti anche extracalcistici. La storia delle relazioni fra i due paesi è complessa: nemici nella Prima guerra mondiale, alleati nella Seconda, dopo il ’45 i due popoli si sono amati e odiati conoscendosi grazie all’emigrazione italiana e al turismo tedesco.
Anche da un punto di vista calcistico, il match appare denso di rimandi: pensiamo alla mitica semifinale dei Mondiali del 1970 in Messico, alla finale dei mondiali di Spagna, nel 1982, alla semifinale di Germania 2006. Match storici, vittorie leggendarie della nostra nazionale, che in quei successi condensava il trionfo di una mentalità, di un carattere, di una storia. La potenza simbolica del calcio è sempre stata questa, ovvero il fatto di saper condensare narrazioni extra-sportive. Accadeva così che l’Italia calcistica rappresentasse il pragmatismo, la tenacia, la furbizia, la Francia l’eleganza intellettuale del calcio champagne, l’Olanda la creatività libertaria e un po’ capellona del calco totale, la Germania l’organizzazione e la fisicità, il Brasile il calcio fantasioso, circense e un po’ indolente, le nazionali africane un calcio tutto fisico ma privo di disciplina tattica e così via. Dietro gli undici uomini che scendevano in campo si era soliti vedere, magari in modo un po’ convenzionale, il carattere di tutto un popolo.
Ora, però, tutto questo è finito o sta finendo. Se i ghanesi Thomas e Rose Barwuah avessero deciso di emigrare a Düsseldorf anziché a Palermo e, in seguito, in un comune del bresciano, sabato sera Mario Balotelli avrebbe giocato con la maglia tedesca anziché con quella italiana. E non ci sarebbe stato per niente Jérôme Agyenim Boateng se solo a suo tempo avesse compiuto la scelta del fratello Kevin Prince, optando per la nazionale ghanese anziché per quella tedesca. Il fatto che in Italia e parzialmente persino ancora in Germania questi casi siano eccezionali non deve ingannare: quando un’eccezione viene presentata come esemplare è logico aspettarsi una sua generalizzazione. È assolutamente ovvio, allora, che tifare per 11 individui casualmente capitati in Italia contro 11 individui accidentalmente di passaporto tedesco non abbia più alcun senso.
Quello che infastidisce, tuttavia, è l’inutile e retorica enfasi posta sul match dagli stessi media che per anni ci hanno presentato i Balotelli e i Boateng come i battistrada della “nuova” nazionalità. Insomma: se si vuole essere cosmopoliti bisogna esserlo fino in fondo, con coerenza. È troppo comodo operare per la decostruzione della nazionalità e poi mantenere quei riferimenti simbolici che alla nazionalità fanno riferimento solo perché le masse vi sono irrazionalmente attaccate. Cosmopoliti, siate coerenti: abolite le nazionali di calcio.
C’è del resto chi già da tempo si è lucidamente incamminato su questa strada. In un libro sulla storia della narrazione nazionale fra Risorgimento e fascismo (Sublime madre nostra, Laterza) l’autorevole storico Alberto Maria Banti lamentava la permanenza del discorso nazional-patriottico nel lessico sportivo che «continua a valorizzare in modo parossistico le imprese dei “nostri” atleti». Continua lo storico: «Quando gioca la “Nazionale”, gli stadi e i giornali sportivi si trasformano in uno dei contesti di massima persistenza e di massima valorizzazione dell’identità nazionale, col suono dell’inno di Mameli, il tripudio di bandiere tricolori e il confronto stereotipato tra il genio calcistico italiano e le modalità di approccio delle altre “scuole calcistiche nazionali, la cui differenza è spesso fatta risalire al presunto effetto di diversi “caratteri nazionali”».
Ma Banti spinge la coerenza fino in fondo e mira anche più lontano, deplorando per esempio il «principio puramente nazional-patriottico secondo il quale c’è più da imparare dallo studio della Divina Commedia – anche se la si deve leggere in un italiano arcaico e col continuo ricorso alle note esplicative – di quanto si possa imparare dalla lettura di Guerra e pace, o dei Buddenbrook, o di Gita al faro, anche se sono tradotti in un ottimo italiano corrente, perché la Divina Commedia sta sul “nostro” asse genealogico». Brutale ma consequenziale: se la nazione è un relitto del passato, insieme con essa nella spazzatura vanno anche la maglia azzurra e persino Dante. Con inevitabile corollario finale: «Invece di continuare a dibattere sul se la Repubblica abbia bisogno di un’identità nazionale forte, sarebbe piuttosto opportuno discutere sul se – in assoluto – abbia bisogno di un’identità “nazionale”». Bentornata, coerenza.
Adriano Scianca
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