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Poste Italiane sbarca in borsa. Ecco a cosa rinuncia lo Stato

by Filippo Burla
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poste italiane ufficio

Lunedì parte la quotazione di Poste Italiane

Roma, 10 ott – Tutto pronto per lo sbarco a Piazza Affari di Poste Italiane. La Consob ha dato ieri disco verde al prospetto informativo, preludio per lo sbarco sui listini azionari.

L’arrivo in borsa di Poste Italiane

L’offerta pubblica iniziale, vale a dire il collocamento effettivo, partirà lunedì. Il ministero dell’Economia, attuale azionista totalitario, metterà sul mercato inizialmente il 36% del gruppo, quota destinata a raggiungere come da previsioni il 40% nel giro di qualche settimana. Il prezzo varierà fra un minimo di 6 ed un massimo di 7.5 euro ad azione. L’incasso per l’erario si aggirerà così fra i 7.8 e i quasi 10 miliardi. Una boccata d’aria fresca per le casse del ministero, che da sempre contano sugli introiti delle privatizzazioni per puntellare le finanze pubbliche.

Poste Italiane, un gioiello pubblico

Poste Italiane è un gruppo da quasi 30 miliardi di ricavi, con oltre 140mila dipendenti e fortemente diversificato. Il settore tradizionale dei recapiti ormai pesa solo il 14% sul totale, mentre il grosso è fatto dai settori finanziario ed assicurativo. E’ sempre Poste, infatti, a curare il risparmio poi gestito da Cassa Depositi e Prestiti: una massa da 250 miliardi, convogliata negli investimenti pubblici, raccolta grazie alla forte presenza nel territorio degli uffici postali e che rappresenta storicamente una garanzia molto più di altri prodotti.

La rinuncia ad utili miliardari

Non solo la diversificazione produttiva, non solo la raccolta del risparmio, ma anche la solidità dei conti. Sono anni che Poste Italiane, prima sotto la gestione Sarmi e ora a guida Caio, presenta bilanci in perfetto ordine. Certo, son presenti i contributi pubblici per il servizio universale (garantito dalla Costituzione) ma anche in loro assenza gli utili non verrebbero a mancare. Da almeno 6 anni -escludendo il 2014, anno di svalutazioni e pulizie di bilancio conseguenti il cambio alla dirigenza- gli utili si sono attestati a quota 1 miliardo.

Di questo miliardo, in genere la quota staccata come dividendo (payout, in gergo tecnico) si attestava al 50%, circa 500 milioni ogni anno. Con la quotazione salirà all’80%. Un incremento-premio per rendere il titolo più appetibile e che permette allo Stato di così mantenere quasi inalterato il proprio incasso, ma costringe il gruppo a rinunciare a somme che prima venivano reinvestite nei servizi. Alla faccia della presunta efficienza del mercato.

Ridurre il debito pubblico?

Dieci miliardi sono senza dubbio una discreta cifra, anche se -ammesso che vengano effettivamente incassati: il precedente di Fincantieri, pur diverso nella sostanza, non permette facili entusiasmi- rappresentano solo lo 0.45% del debito pubblico. Anche con altre privatizzazioni, la strategia di vendere per ridurre lo stock di passività non sembra quindi poter neanche minimamente pagare.

Filippo Burla

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