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Le ragioni del No al referendum: la non-riforma del Senato

by La Redazione
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aula-senatoRoma, 1 dic – Tra i punti fondamentali della riforma costituzionale troviamo il “cambiamento” strutturale del Senato rispetto alla sua attuale composizione.  Si tratta di un intervento che incide su un’istituzione che affonda le proprie radici nell’antica Roma: il suo nome, infatti, deriva dal latino “Senatus”, ovvero assemblea degli anziani, della quale facevano parte le cento persone considerate più sagge, scelte direttamente all’interno delle famiglie patrizie. Secondo la tradizione, fu Romolo a nominare il consiglio, chiamandolo così ad affiancare il sovrano nelle decisioni più importanti. Le riunioni dei senatori avvenivano in luoghi chiusi ma aperti al pubblico. Tale istituzione acquisì un’importanza ancor maggiore durante l’età repubblicana. Nel periodo imperiale, invece, perse gran parte dei suoi poteri, che si accentrarono nelle mani degli imperatori. Tuttavia, non perse il pregio e l’importanza che aveva acquisito nei secoli. Basti pensare che Giulio Cesare e l’imperatore Augusto fecero costruire per i senatori la Curia Julia nel Foro romano, visibile ancora oggi.

Venendo al periodo contemporaneo, il primo Senato «moderno» della storia tricolore è quello creato dallo Statuto Albertino emanato da Carlo Alberto di Savoia nel 1848. Il Senato Subalpino era uno dei due pilastri del sistema bicamerale su cui si reggeva la monarchia costituzionale, e i suoi membri venivano nominati direttamente dal sovrano, con carica considerata a vita.  Lo Statuto Albertino prevedeva la possibilità che venissero nominati senatori anche coloro che avessero illustrato la Patria «con servizi e meriti eminenti». Ciò consentì la nomina di personaggi della letteratura, della scienza o della cultura del calibro di Alessandro Manzoni, Giuseppe Verdi, Benedetto Croce, Giosuè Carducci e Guglielmo Marconi.  La prima sede del Senato del Regno fu Palazzo Madama a Torino. Per ironia della sorte, anche la sede romana dell’attuale Senato della Repubblica porta lo stesso nome. Si tratta però di due «madame» diverse: quella torinese è Maria Cristina di Francia, vedova di Amedeo I di Savoia; quella romana è Margherita d’Austria. Il cambio di sede si ebbe nel giugno del 1871, dieci anni dopo l’Unità d’Italia, quando, a seguito della breccia di Porta Pia, con la presa di Roma da parte dei bersaglieri italiani, la capitale del Regno venne trasferita nella Città eterna.

Ricollegandoci alle tematiche del prossimo referendum del 4 dicembre, è curioso notare come già al tempo dello spostamento del Senato a Roma si ponesse il problema relativo ai costi della politica. Le prime avvisaglie di malcontento verso i privilegi della “casta”, infatti, risalgono proprio a quel periodo e giungono così fino ai giorni nostri. Non è un caso, quindi, che uno dei cavalli di battaglia della riforma costituzionale si basi sulla diminuzione dei costi della politica e che, a tal fine, uno degli organi colpiti più duramente sia proprio il Senato. Dunque, benchè la parte più consistente della riforma si concentri in realtà nell’ultimo capoverso della domanda referendaria, ossia quello riguardante la modifica del titolo V della Costituzione in materia di riparto di competenze tra Stato e Regioni, per una scelta ben precisa uno dei temi più battuti è proprio l’abolizione del bicameralismo paritario e la presunta diminuzione dei costi della politica. Ciò, dovrebbe avvenire tramite “l’alleggerimento” del Senato, che vedrà diminuire i propri componenti.

A questo punto, è più che lecito domandarsi se una proposta di questo genere sia effettivamente idonea a perseguire una concreta diminuzione dei costi della politica oppure no, andando a costituire, in questo caso, niente meno che un stratagemma per arrivare direttamente alla “pancia” dell’elettorato. Una tale evenienza non farebbe che suscitare una certa ilarità, dato che i promotori dell’attuale riforma sono proprio coloro che per lungo tempo hanno accusato altri partiti e movimenti di utilizzare “pura demagogia populista” nel portare avanti le proprie battaglie. Con ciò, non si sta sostenendo che i costi della politica siano adeguati, anzi, sarebbero sicuramente da rivedere, se non da abbattere. Tuttavia, è questo lo strumento migliore per farlo? Senza dover effettuare chissà quale analisi macroeconomica, per rispondere basta analizzare i “numeri” della riforma che ci apprestiamo a votare. A ben vedere, la riduzione di due terzi dei membri del Senato non comporta un taglio di egual misura dell’insieme dei parlamentari. Attualmente, infatti, il parlamento è composto da 630 deputati e 322 senatori, per totale quindi di 952 membri. Pertanto, la riduzione del Senato a soli 100 senatori, comporterebbe un calo dei membri totali del parlamento a 730, sostanziandosi così in una diminuzione di poco più del 20%. Tuttavia, le spese per i parlamentari, a cui sommare anche quelle relative all’espletamento del loro incarico (rimborsi spese, assistenti, uffici, gruppi parlamentari), sono solo una parte di quelle destinate a mantenere il ceto politico. Occorre tener conto, infatti, anche delle retribuzioni di molti consiglieri regionali, che si avvicinano spesso a quelle dei parlamentari, nonché quelle dei consiglieri provinciali, metropolitani e comunali. Senza contare che, in considerazione delle nuove competenze attribuite al Senato e del fatto che sarà composto da membri provenienti da tutto lo stivale, i costi strutturali e funzionali del medesimo sono destinati proporzionalmente a salire: basti pensare solo ai rimborsi spese per viaggi, vitto e alloggio a Roma. Non è un caso, quindi, che la Ragioneria di Stato abbia stimato che, qualora la riforma passasse, vi sarebbe un risparmio globale, quindi non solo relativo al “taglio” dei senatori, di 50 milioni di euro annui. Una cifra che, per quanto consistente, pesa sul bilancio statale quanto una piuma.

Al di là dell’aspetto meramente economico della riduzione dei costi dovuta alla diminuzione dei senatori, dal punto di vista politico occorre interrogarsi sulla scelta dei soggetti che andranno a comporre questo nuovo Senato. Sul punto, il Governo ha deciso di puntare sui consiglieri regionali. A chiunque segua un minimo la vita politica e giudiziaria nazionale risulterà palese come costoro non costituiscano certo la parte migliore del ceto politico, anzi. Qualora passasse la riforma, entreranno in Senato ben 73 consiglieri regionali, coadiuvati da 21 sindaci e 5 senatori eletti dal presidente della Repubblica. A decretare chi andrà a sedere a Palazzo Madama saranno gli stessi consigli regionali, ai quali sarà attribuito il potere di designare un numero di rappresentanti proporzionale rispetto al numero di abitanti della regione. Sulle modalità del coinvolgimento di questi “nuovi” senatori, allo stesso modo, è più che lecito nutrire seri dubbi. Questa figura di senatori “part-time”, come qualcuno li ha definiti, è alquanto peculiare poiché si tratta di soggetti, i consiglieri regionali e i sindaci, che molto spesso, come purtroppo la cronaca ci ha insegnato negli ultimi anni, non riescono nemmeno a gestire il proprio territorio. Figuriamoci, allora, se a tale impegno andasse a sommarsi contestualmente quello di gestire la nazione intera!

Tutte queste considerazioni, comunque, diventano assolutamente marginali se si passa a considerare la perdita secca, in termini di rappresentatività che determina la modifica del Senato.  La diminuzione del numero di senatori e le modalità della loro nomina, infatti, escludono qualsiasi ruolo dell’elettorato. Probabilmente, si guadagnerà in termini di velocità del procedimento legislativo, ma, a questo punto, sarebbe stato più coerente eliminare del tutto il sistema bicamerale. Oppure ripensare una diversa composizione e delle diverse competenze del Senato, rielaborato come espressione delle forze produttive, sociali e intellettuali della Nazione.

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