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Antirussismo o filorussismo? No, filoitalianismo

by Stelio Fergola
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filoitalianismo

Roma, 10 mag – Credo sia giusto intervenire, quanto meno a titolo personale, sulle solite polemiche – dal mio punto di vista assolutamente inutili – sul terrificante 9 maggio russo, espresse anche sul nostro giornale, il quale negli ultimi tempi ha ospitato opinioni diametralmente opposte su un tema che si è rivelato sorprendentemente divisivo. Non pretendo di parlare a nome di tutti, soprattutto su una questione che palesemente genera sensibilità diverse. Certamente ho intenzione di metterci faccia e firma, come è giusto e sacrosanto che sia in chiunque voglia affrontare la vita e la storia. Un tema che divide, va da sé, produce valutazioni opposte: c’è chi punta sulle fake news occidentali riguardanti la Russia, dall’altro chi si lega ancora a un’interpretazione novecentesca delle società post-comuniste. In tutto ciò, si perde di vista, tra antirussismo e filorussismo accentuati, l’unico tema che dovrebbe essere dirimente, ovvero il filoitalianismo. La parola “Italia” è quasi scomparsa dal radar del pensiero non conforme. Non parliamo neanche di “italiani”, ormai ridotti – se dovessimo tenere fede agli usi verbali – alla stregua di valligiani in un piccolo territorio sperduto chissà dove nel globo terraqueo.

Il “comunismo che unisce”

Può sembrare paradossale, ma spesso le interpretazioni sull’universo russo e in generale euroasiatico dei due schieramenti coincidono. Postmarxisti e post “antimarxisti” recepiscono lo stesso nostalgismo comunista, ma da prospettive ovviamente opposte: gli uni in senso favorevole, gli altri in senso contrario. La realtà è perfino più banale di queste bandierine: il comunismo è morto definitivamente con la caduta dell’Unione Sovietica il 25 dicembre del 1991. Oggi sopravvive in alcune realtà minori, tra le quali certamente non figurano né la Russia né – e questo è il dato più difficile da comprendere – la Cina. Per lo meno se andiamo alla sostanza dei fatti e non ci facciamo confondere dai simboli e dalle dichiarazioni di principio (sopravvissuti solo a Pechino, del tutto inesistenti a Mosca). La Russia non è un’alternativa socioeconomica al liberismo, come giustamente sottolinea l’articolo pubblicato ieri. Ma anche la Cina, guardando alla ciccia, ha ben poco in comune con il comunismo novecentesco. Sopravvive il simbolo della falce e del martello, sopravvivono le dichiarazioni pubbliche dei governanti. Basta? Arduo a dirsi, perché oggi rimane una parziale pianificazione centrale che però esisteva – per fare un esempio noto – anche nella Germania nazista, certamente non annoverata tra gli stati comunisti dello scorso secolo. Ma la metà dell’economia e del pil cinese restano privati, legati anche al frutto di multinazionali e non soltanto di “piccole realtà imprenditoriali” come potevano essere i ristoranti tollerati nell’Ungheria comunista di Janos Kadar. Il mercato esiste, anzi è strabordante e non è completamente (e neanche per la maggior parte) controllato o represso dalla pianificazione centrale.

Quanto alla Russia, ha abbracciato pienamente il modello liberista. Con delle variazioni interessanti nell’interpretazione delle tradizioni e della stessa etica, che obiettivamente non hanno seguito le stesse e identiche derive del sistema a propulsione statunitense occidentale. Se dal punto di vista economico non ci sono enormi differenze, su quello valoriale le sfumature non possono essere ignorate. Come non possono essere ignorate nell’avamposto orientale dell’impero americano, cioè nell’Ungheria di Viktor Orban. Questo indipendentemente da essere spaccati dagli ennesimi “filoquesto” e “filoquello”, come nel caso della questione ucraina. Non è vietato da una religione constatare che il postcomunismo abbia generato società “un po’ più resistenti” sul piano valoriale allo strapotere progressista anglosassone. La storia è piena di esempi e di deviazioni che generano conseguenze inaspettare. Il fascismo ha generato, ad esempio, l’idea di destra sociale, prima inesistente, successivamente alla sua dipartita nel 1945. Capita, insomma.

Il 9 maggio non ci riguarda

Da un lato c’è chi sottolinea giustamente come il 9 maggio russo rappresenti una sconfitta italiana (anche se la parola “italiana” è sempre meno usata, si ricordi l’affermazione di cui sopra), dall’altro c’è chi addirittura lo festeggia o lo venera. L’unica verità, come spesso avviene, sta nel mezzo, e risponde a quel “filoitalianismo dimenticato”. Non c’è un motivo logico per cui i russi non dovrebbero festeggiarlo, e non ha molto senso “pretendere” che non lo facciano. Così come non esiste alcuna ragione logica addirittura per mitizzarlo in casa nostra. Perché dovrebbe essere ovvio che per noi, quella data, rappresenti la morte della Nazione. Potremmo però concentrarci su un fatto: i russi festeggiano questioni vittoriose che riguardano loro, noi celebriamo tragedie militari e nazionali come se fossero addirittura trionfi. Può sembrare una banalità, ma non lo è: perché anche in chi, come noi, genera l’accanimento sacrosanto contro il 25 aprile vige ultimamente quasi una ignavia che “dà per scontata” l’ostilità, o peggio ancora lo riduce a una sorta di “sfottò” tra compagini rivali. Non è così: il 25 aprile è una tragedia di tutto il popolo italiano e meriterebbe decisamente più spazio (sì, ancora di più) che non la futile contestazione di vittorie altrui che per noi (ovvietà) rappresentano sconfitte. Ma di cui non si capisce cosa dovrebbe interessarci.

Il filoitalianismo è un sentimento quasi scomparso

Chi scrive non ha mai nascosto la sua unica inclinazione portante, che è quella alla difesa di un Paese che percepisce – come molti – sulla via del tramonto. Politico come culturale, etnico, e in definitiva nazionale. Il filoitalianismo sembra scomparso dai radar, se non per essere ricordato ogni tanto nelle ricorrenze del 17 marzo o del 4 novembre, per di più in un modo tiepido, ancora “scontato” senza esprimere lo stesso “colore” espresso verso un 9 maggio russo di cui, ribadisco, non dovrebbe fregarci assolutamente nulla. Ma il filoitalianismo è l’unico motore utile per poter invertire le tendenze culturali in atto da decenni in questa disgraziata Nazione. E dovrebbe essere l’unico lume spirituale a guidarci. Chi scrive lo terrà sempre come unico punto di riferimento, dovesse essere l’ultima cosa che fa in questo povero mondo. Soprattutto, non dandolo mai per scontato, a differenza di molti altri.

Stelio Fergola

 

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