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Roma, 30 mag – Stiamo assistendo, in questi giorni, alla battaglia dei movimenti sindacali francesi contro l’ormai celebre loi du travail. Sicuramente il sistema francese del lavoro cerca di tutelarsi e da quello che vedo molto probabilmente cerca di tutelarsi in maniera super partes, evidenziando sicuramente una grandissima unità di intenti e di obbiettivi. L’obbiettivo principale per i francesi oggi è quello di non vedere privata la classe lavoratrice dei proprio diritti in nome di una fantomatica crescita industriale per uscire dalla crisi. Tanto di cappello ai nostri vicini, loro non vogliono mandare giù una pillola che, a noi, Monti prima e Renzi dopo sono riusciti abbondantemente a farci digerire con la legge Fornero e il Jobs act, senza che nessun sindacato di maggioranza si sia permesso poter pensare ad una anche moderata opposizione. Perché i sindacati italiani, tradizionalmente molto operativi contro governi di centro-destra definiti – nella maggior parte dei casi probabilmente a ragion veduta – liberali e borghesi, non si siano altrettanto velocemente attivati rimarrà una domanda insoluta, possiamo però cercare di dare qualche risposta.
Nel caso del governo Monti e della legge Fornero, la crisi economica, che ad ora non è certo migliorata, non ha permesso di trattare un granché con il governo, la situazione allarmante dell’economia liberale aveva purtroppo tolto ai sindacati ogni potere contrattuale. Con Renzi invece, l’aver da parte del presidente del consiglio diminuito le ore per i distacchi e i permessi sindacali e l’aver velatamente minacciato l’esistenza dei Caaf, vero centro di interesse economico dei sindacati, è stata probabilmente e ripeto probabilmente la mossa vincente per far pendere l’ago della bilancia a favore del job act. Parole come: licenziamento a tutele crescenti, demansionamento, controlli a distanza, precariato, sono diventate di uso comune, anche se in alcuni casi andrebbero studiate bene, approfondite. Quindi da quel momento e per più di un anno, silenzio assoluto da parte dei sindacati e dei lavoratori.
Oggi invece, all’alba di un referendum costituzionale che potrebbe mettere in crisi seriamente l’esecutivo, il sindacato numericamente più rappresentativo si presenta con la proposta di legge di iniziativa popolare denominata “Carta dei diritti universali del lavoro”. Iniziativa molto interessante, che lega però il suo successo effettivo ad un cambio radicale di mentalità sindacale, che dovrebbe spostare la sua attenzione principale dalla terra dello scontro e della rivendicazione a quella di una presa di coscienza e di crescita della comunità del lavoro in tutti i suoi elementi. L’iniziativa sindacale, legata all’attività dei delegati capillarmente inseriti nelle varie realtà produttive, è di cruciale importanza. Si assiste ad assemblee sindacali veramente partecipate, nelle quali la proposta di legge è spiegata nei dettagli e sottolineando l’importanza di arrivare a certi obbiettivi di considerare il lavoro come un unico grande contenitore da tenere monitorato giorno per giorno, su cui progettare, studiare e far crescere una mentalità nuova.
Per contro, come tradizione radicatissima nella nostra essenza sindacale, si vedono delegati sindacali sponsorizzare la proposta di riforma in un vecchio, vecchissimo schema, obsoleto e condannato, cioé spacciare questa riforma, che è solo l’inizio di una lunghissima strada per l’ennesimo momento in cui l’unità dei lavoratori permetterà di riacquistare diritti e dignità, senza evidenziare il bisogno di maturazione del mondo produttivo: è il solito grossolano errore di chi vanta dei diritti, ma non si attiva per meritarseli e difenderli ogni giorno. La sintesi del problema è tutta in questo passaggio: andiamo a firmare per questa proposta di legge, ma nel contempo assumiamoci noi direttamente, e pretendiamo che lo facciano i sindacati, la responsabilità di quello che stiamo facendo, portiamolo fino in fondo, ben consci che gli attori attivi del cambiamento dovremo essere noi e i sindacati che sono la nostra espressione diretta, per tagliare con un passato che vedeva il sindacato sterile rappresentante di singole categorie, ma per farlo evolvere in rappresentante del tessuto produttivo intero. Ogni singolo fattore è assolutamente legato agli altri ed ha bisogno di attenzione, altrimenti rischia di far perdere valore e credibilità a tutto il movimento, con le ricadute negative che vediamo oggi a livello retributivo ed occupazionale. E’ per questo che non si dovrà più ragionare solo ed esclusivamente in termini economici, ma recuperando a tutto tondo il concetto di etica del lavoro e della comunità. Perché sarà l’etica che permetterà al lavoro di non essere più ricattabile e ricattato dall’economia.
La sfida del futuro sarà quindi pretendere dai sindacati, ma ancora prima da noi stessi, di portare avanti questa riforma dandole forza ogni giorno con il nostro lavoro, considerando il nostro operato parte di qualcosa di più grande. Staccarsi dalla mentalità liberale non vuol dire combatterla come abbiamo fatto con le sue stesse armi economiche per così tanto tempo, vuol dire combatterla inserendo valori morali importanti e responsabilità profonde. Resta da capire se ne saremo capaci. Da parte sua, il sindacato avrà la forza e la volontà al suo interno per farlo?
Gianluca Passera