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Finti deportati e vera ambiguità: Cercas stupisce ancora

by La Redazione
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Cercas l'impostoreRoma, 17 nov – Già quindici anni fa, con “Soldados de Salamina” (edizione italiana Guanda, 2004) lo scrittore Javier Cercas si era segnalato come uno dei talenti narrativi più originali del suo paese. Infatti, in una Spagna dove impera la “correttezza” politica- di destra o di sinistra che sia: le identità sono annacquate, il franchismo è stato quasi cancellato dalla memoria collettiva, il nuovismo spaccatutto dei vari “indignados” va all’assalto del presente ma sembra non essere intenzionato a fare i conti con storia e memoria-, ecco che il suo romanzo riusciva ad affrontare un tema rovente come quello della guerra civile evitando di impantanarsi negli schematismi ideologici e dando ai protagonisti della sua storia- un “nero” e un “rosso”- la dignità che va riconosciuta a chiunque compia delle scelte con passione ideale ed onestà intellettuale. Ma la “marcia in più” di Cercas non veniva solo da questo: infatti i destini del falangista e del repubblicano si intrecciavano, c’era posto per gli intimi travagli dell’uno e dell’altro, si dava spazio a quel misterioso intrico dell’animo umano che nessuna indagine può svelare. Anche perché spesso è il caso a guidarci o magari qualcosa che nasce da una circostanza storica o da una scelta di campo ma poi finisce con l’essere contraddetto da uno scarto della volontà, dalla forza di un’emozione, dal peso di una decisione improvvisa e apparentemente immotivata. Casuale?

Mi viene in mente una conversazione all’Istituto di Storia di Pisa, col professor Mario Mirri, con cui preparavo la tesi di laurea (su Gobetti, “La Rivoluzione Liberale”, i rapporti con Prezzolini, l’antifascismo, l’a-fascismo e l’anti-antifascismo). Con Mirri, comunista, quella volta mi ero messo a discutere di RSI e Resistenza, e del perché delle contrapposte scelte di tanti giovani disposti ad immolarsi. Ebbene, il prof. mi confidò che, alla fine del ’43, lui e i suoi compagni di studio, lontani le mille miglia da ogni opportunistica, badogliana idea di resa, spesso scelsero l’uno o l’altro fronte proprio per motivi casuali, “occasionali”, magari perché avevano letto un libro che li aveva ispirati o perché un amico che ammiravano aveva già fatto la sua scelta, la sosteneva con vigore e li “convinceva”. Comunque fosse, c’era voglia di non darla vinta all’immagine di un’Italia in svendita. C’erano, alla base, dei “valori”: ognuno li rivendicava e li vedeva incarnati nell’uno o nell’altro schieramento. Dunque, il prof. comunista, che aveva scelto la Resistenza, non si sognava minimamente di puntare il dito accusatore contro quegli amici che avevano scelto la RSI. Il “caso” era diventato la “causa” e per la “causa” si va a combattere e, se necessario, a morire.

Bene, per Cercas, anche l’ambiguità ha una sua ragion d’essere. Anche l’apparire. Anche la finzione che- dal verbo latino “fingo”- è un plasmare e un riplasmare la realtà quando non ci basta e per vivere dobbiamo “reinventarci”.

Ora, Enric Marco, protagonista del nuovo romanzo di Cercas (“L’impostore”, Guanda, pp.416, euro 17), è proprio uno che si “reinventa”.

Si badi bene: Enric Marco non è un personaggio della “finzione” letteraria, anche se poi la “finzione” di Cercas si diverte a “giocare” con lui. E’ un uomo concreto, in carne ed ossa. Un catalano tosto. Oggi novantenne, ha scandalizzato mezzo mondo, precipitando dagli altari nella polvere. Cosa c’è di peggio di un combattente coraggioso che assurge a mito e poi si rivela un bugiardo, un mistificatore, un impostore? Interdetto e riprovazione scattano immediati, insieme agli elogi volti al ricercatore di storia che, nel 2005, lo ha smascherato. Ed invece ecco che Cercas vuole andare al di là dell’indignazione e della riprovazione. Vuol capire. Capire significa assolvere? No. Significa, piuttosto, porsi degli interrogativi. Se, come da vocabolario, “impostore è chi dà a credere cose non vere per trarne vantaggio”, Marco ha trovato il proprio “vantaggio” nella straordinaria “visibilità” di cui ha goduto grazie alla sua finzione. Ma siamo di fronte a un personaggio luciferino o a un don Chisciotte, folle ma puro, che vuol solo crearsi un’altra vita?

Vediamo. Marco, anarchico e antifascista, il che nella immemore Spagna post-franchista è già un certificato d’onore, decide di “potenziare” la sua immagine militante: infatti, si fa passare per ex- deportato nella Germania di Hitler, perseguitato, vessato, internato e sopravvissuto. Con quest’aura di martirio che gli circonda la testa, per tre anni è presidente della associazione spagnola dei sopravvissuti ai campi, racconta con voce vibrante l’orrore hitleriano, tiene centinaia di conferenze, concede decine di interviste, riceva importanti onoreficenze ufficiali, pronuncia un discorso al Parlamento spagnolo in nome dei suoi compagni di sventura. Finché, nel 2005, viene smascherato. In un momento cruciale perché è la vigilia del sessantesimo anniversario dell’ingresso alleato nei campi nazi e perché, per la prima volta, un presidente del governo spagnolo avrebbe partecipato alle celebrazioni.

Avendo accanto a sé- ma c’è bisogno di dirlo?- Enric Marco. Che, sputtanato dalle rivelazioni, da eletto diventa il peggiore dei reprobi.

Un tipo di questo genere doveva per forza affascinare uno scrittore come Cercas. Il quale, curioso della complessità dell’animo umano, si chiede: perché un romanziere ha licenza di mentire e a un Enric Marco non è concesso? Cosa ha fatto di male? Ha una precisa “colpa”?

Con la sua finzione, ha dato sostegno ai valori in cui credeva: antifascismo e antirazzismo, libertà e democrazia, pace e umanità. O no?

Come abbiamo detto, Cercas prova a “capire”. Incontra, e si scontra anche, con l’uomo e col personaggio, lo interroga e lo provoca, scava nella sua vita fin dalla tormentata infanzia. Il romanzo è frutto di questo percorso di conoscenza particolare ma propone interrogativi più generali: perché si finge? cosa c’è dietro e dentro un impostore? ci sono impostori “buoni” e impostori “cattivi”?

Se suggestioni vengono anche dall’attualità (il caso del giornalista di “The New Republic” Stephen Grass, assurto giovanissimo ai fasti della gloria con le sue inchieste e smascherato nel ’98: aveva inventato tutto, fatti e personaggi), storia e letteratura ne forniscono di molteplici. Si pensi alle avventurose vicende dell’impostore Giorgio Perlasca (le racconta Enrico Deaglio ne “La banalità del bene”, Feltrinelli, 1991), mussoliniano fervente e volontario di tutte le guerre fasciste, che, nel ’44, in Ungheria, si finge console spagnolo, per salvare dalla deportazione migliaia di ebrei. Un “giusto”, Perlasca, che, si badi bene, non ci pensa minimamente a rinnegare la sua fede fascista e un “indegno” Enric Marco che nel suo antifascismo ha voluto mettere “di tutto e di più”?

Impostori, eroi, traditori… Quante volte i ruoli si confondono! Perché, come c’è bisogno del sogno, c’è bisogno anche della finzione per non essere uccisi dalla realtà. Magari per riscattarla, per nobilitarla.

Come nel “Tema del traditore e dell’eroe”, un racconto di Borges compreso nella raccolta “Finzioni”. La storia ha come tema la lotta per l’indipendeza irlandese: siamo nell’800 e Fergus Kilkpatrick, capo dei patrioti, incarica James Alexander Nolan di individuare il traditore che si nasconde nelle loro file. Alexander scopre che il traditore è proprio lui, Kilkpatrick. E il consiglio rivoluzionario pronuncia la sentenza di morte.

Ma non si possono scandalizzare i buoni patrioti per cui Kilkpatrick è un mito. Scatta, allora, la provvida impostura: Kilkpatrick è stato vittima di di un omicidio politico. Non è vero ma tutti ci credono. E il mito non sarà scalfito. Se l’eroe è un traditore e la realtà uccide, la finzione salva.

Mario Bernardi Guardi

 

 

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