Roma, 17 feb – Chi si suicida merita almeno una forma minima di rispetto: avendo deciso di consumare la propria vita, e non quella di altri, costui dovrebbe almeno essere sottratto al nostro giudizio e alla nostra opinione, quali che siano le ragioni del gesto. Vero. Quando però a partire da un suicidio la società costruisce una narrazione che riguarda tutti noi e che vorrebbe avere effetti politici, allora qualche riflessione, per quanto invadente rispetto alla sfera intima di chi si è tolto la vita e dei suoi familiari, si impone.
Negli ultimi tempi abbiamo visto giovani che si suicidano per una perquisizione della Guardia di Finanza in cerca di droga, per l’impossibilità di trovare lavoro, perché presi in giro a scuola. C’è decisamente qualcosa che non va nella nostra società, peccato che le ricette che essa stessa propone siano surreali e non tocchino il problema. Del ragazzo di Lavagna si è detto che si sarebbe salvato con leggi antiproibizioniste. Ma, dall’Uruguay all’Olanda, non esiste uno Stato in cui la cannabis sia legalizzata totalmente, in qualsiasi quantità e per chiunque, soprattutto se si tratta di minorenni. È sempre questione di quantità minime consentite. E per appurare quale sia questa quantità, è pur sempre necessaria una perquisizione che lo appuri, quando si è in presenza di una segnalazione in merito. Ora, proprio la perquisizione è bastata a quel sedicenne per decidere di farla finita. Perché non ha retto di fronte a questo evento? Non lo sapremo mai, ovviamente. Quello che emerge con chiarezza è solo una grande fragilità, che non essendo esclusiva di quel solo sedicenne, forse andrebbe indagata come fenomeno sociale generale. La stessa fragilità di Michele, il trentenne friulano che si è ucciso qualche giorno fa lasciando una straziante lettera d’addio. Colpa del precariato, dicono. Che in effetti è una vera piaga sociale, capace di uccidere la speranza in tutta una generazione.
Quella lettera, tuttavia, oltre a far emergere altri tipi di problematiche (un rapporto difficile con l’altro sesso, per esempio), era completamente intrisa di una ideologia dei diritti mandata in frantumi al primo confronto con la realtà: non è giusto, non me lo merito, ho diritto a un mondo diverso, la speranza è qualcosa che voi mi dovete. La santificazione della vittima, così tipica della nostra società, genera mostri. La stessa retorica sul “bullismo”, con la persecuzione di ogni forma di esuberanza giovanile, rientra in questo quadro. Come viene curata questa fragilità? Con la coltivazione di caratteri ancora più fragili. Con ulteriore vittimismo. C’è, insomma, un modello educativo che ha fallito e che crea vittime. Vittime precarie, vittime bullizzate, vittime drogate, vittime di qualunque categoria. Abbiamo ucciso la volontà e la forza della gioventù. Che essa si uccida anche materialmente è solo una conseguenza.
Adriano Scianca