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Cibo e tradizione: 10 ricette per raccontare l’Italia più antica e verace

by La Redazione
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Roma, 10 giu – I media lo mostrano e ne parlano incessantemente. Dai reality, alle serie tv, documentari, video, foto e social: il cibo (mediatico), anche sull’onda di Expo 2016, è diventato un’ossessione quasi morbosa, e ostentarlo in tutte le sue declinazioni sembra essere prassi quotidiana. Tuttavia, mentre Masterchef domina lo share, la Clerici lascia in lacrime La Prova del Cuoco e Alessandro Borghese ricopre le vesti di guru dell’etere, va ricordato che la cucina vera e seria è pur sempre quella delle nonne, delle madri e delle sagre, tutte lontane dalle telecamere, quel sapere cucinare straordinario nella sua quotidianità e umiltà, frutto di secoli di tradizioni, storie e fatiche domestiche. Cibo di territorio, immune alle mode, alla globalizzazione e alle sterili logiche (poco logiche) del mondo moderno.
Qui di seguito 10 ricette regionali di un’Italia vera, a tratti truculenta, ma anche leggendaria.
Sa Cordula. Un vero tripudio della cucina sarda: una treccia a base di interiora d’agnello: intestino tenue, crasso, pancia e una rete (sa nappa) compongono questa estrema prelibatezza. Nella società agricola e pastorale dell’isola da dicembre a primavera si macellano gli agnelli e niente va buttato. A Natale o Pasqua la Cordula viene arrostita in grandi camini, su spiedi o in pentola coi piselli.
Il grano dei morti. Preparato a Foggia in omaggio alle anime dei defunti: chicchi di grano cotti con scaglie di cioccolata fondente, chicchi di melograno, scaglie di gherigli di noce, cannella e canditi, il tutto imbevuto nel vin cotto. Una ricetta pugliese che rimanda al paganesimo e al mito greco di Demetra, Kore e Ade.
Fritto misto alla piemontese. Non tutti lo sanno, ma in Piemonte il fritto è un discorso decisamente serio e caratteristico. Un piatto ricco ma di origini povere che unisce armoniosamente dolce e salato. Gli ingredienti che lo possono comporre sono innumerevoli e tutti prelibati, se preparati con cura:  fegato, polmone, rognone, cervella, animelle, filoni, granelle, salsiccia, fettina di vitello, semolino dolce, amaretto, mela, e talvolta persino delle rane.
Timballo di Bonifacio VIII. Un piatto che trasuda storia laziale da ogni suo ingrediente. Il piatto vuole ricordare il noto pontefice di Anagni nemico di Dante,  fondatore dell’Università “La Sapienza” e del Duomo di Orvieto e di Perugia. La ricetta prevede un’alternanza di strati di fettuccine al sugo e strati di polpette fritte, il tutto  in una forma circolare chiusa da uno strato di prosciutto crudo ma cotto in forno. Esistono varie versioni del timballo comprendenti anche creste di pollo, animelle di vitello, fegatini, e funghi secchi.
Morzello. Simbolo di Catanzaro, una ricetta avvolta da leggende popolari della Calabria dei secoli passati. Una zuppa di frattaglie di vitello (dijuneddhi) ridotte in piccoli pezzi (morzha morzha) e fatti bollire in un pentolone assieme a concentrato di pomodoro, peperoncini piccanti, sale, origano e alloro. Diffuso in tutta la città, è diventato lo spuntino di studenti, operai, nobili e signori. Può essere servito nel piatto oppure, come vuole la tradizione, nella pitta (pane) detta “a ruota di carro”, per la sua forma circolare.
Tortelli con la coda. L’Emilia è sinonimo di pasta, specialmente ripiena. Ne esistono tante versioni, tutte deliziose, ma a Piacenza, nel 1351, le cuoche del castello di Vigolzone si scoprirono artiste e artigiane: in onore dell’illustre ospite Francesco Petrarca, modellarono la pasta dei tortelli  tra il pollice, il medio e l’indice, formando due code sottili ma ben strette e arricciate. Un capolavoro non solo di gusto ma anche d’estetica e manualità che racchiude un saporito ripieno di spinaci, grana, ricotta e noce moscata.
Spaghetti alla chitarra con le pallottine. Forse il piatto di pasta più desiderato e allo stesso tempo brutalizzato all’estero: i veri spaghetti alla chitarra con le pallottine (polpette di vitello agnello e maiale) si mangiano e si preparano in Abruzzo. Il suo nome deriva dalla “carrature”, ovvero il telaio rettangolare in legno di faggio su cui si stende la pasta. I fili metallici presenti per la lunghezza del telaio lo fanno assomigliare appunto allo strumento musicale della chitarra. La presenza delle uova e la lunga lavorazione manuale permettono un’ottima compattezza dello spaghetto. In antichità era addirittura in uso sciogliere dello zafferano con le uova dedicate all’impasto.
Spiedo bresciano. Goduria estrema per i carnivori inappagabili. Cosa rende unico lo spiedo è l’inconfondibile sapore selvatico degli uccellini compresi nella preparazione, e il fatto che parte di questi siano stati vietati negli ultimi anni gli conferisce un ulteriore gusto romantico di proibito. Già le antiche famiglie contadine bresciane utilizzavano grandi spiedi, dette ranfie, su cui infilzare maiale, uccelli, manzo, pollo, coniglio o selvaggina e patate. Messi a cuocere a fuoco molto lento in forni rotanti per diverse ore, almeno 5, e continuamente irrorati con abbondante burro fuso, salvia e sale.
Cèe alla pisana. Capitolo immancabile nel libro dei cibi proibiti italiani: le cèe (ceche), ovvero le anguille neonate risalite alla fine dell’inverno dal mare verso la foce dei fiumi e delle paludi, da alcuni anni specie protetta e venduta clandestinamente addirittura a 500€/kg. La tradizione le impone cucinate con aglio, olio, salvia, pepe, uova, succo di limone e formaggio grattugiato. Una prelibatezza goduta ormai soltanto da esclusive sette toscane.
Sarde in Saor. Lo citava già Goldoni nelle sue commedie nel ‘600, il Saor (sapore), metodo di conservazione attraverso l’uso di aceto e cipolle. Piatto tipico del Veneto più marinaro e lagunare, specialmente di Venezia, dove viene consumato per  la Festa del Redentore ogni anno la terza domenica di luglio. Pietanza frutto delle abitudini di marinai e pescatori con la necessità di nutrirsi a bordo, spesso col frutto del proprio lavoro, in tal caso le sarde o sardelle, e soprattutto di conservarlo il più a lungo possibile. Le cipolle erano inoltre consumate massicciamente come fonte di vitamina C in modo da scongiurare lo scorbuto.
Alberto Tosi

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