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New York, 27 lug – Alcuni giorni fa, è stato annunciato negli Stati Uniti e quindi reso pubblico un lunghissimo articolo scientifico in cui si dichiara l’estrema pericolosità di limitare il riscaldamento globale anche entro la soglia finora considerata di sicurezza di due gradi in più rispetto all’era preindustriale. Oggi il riscaldamento supera gli 0,8 gradi e almeno 1,5 gradi sembrano inevitabili in considerazione del calore già immagazzinato negli oceani.
Il grado di pericolosità nel superamento di una soglia decisamente più bassa, circa 1,5 gradi, è misurato principalmente dal rischio che i ghiacciai continentali dell’Antartide (polo sud) – più di quelli della Groenlandia – si sciolgano a ritmi esponenzialmente accelerati, portando il livello del mare a crescere di cinque metri perfino durante questo secolo, nonché a tempeste di violenza sconosciuta soprattutto sull’Atlantico, le relative coste americane e gran parte dell’Europa occidentale.
Qui bisogna intendersi: la maggior parte degli scienziati del clima ritiene inevitabile che i livelli degli oceani e dei mari crescano anche di parecchi metri, ma gli effetti veramente dannosi o al limite insostenibili erano finora previsti non prima di 200 anni da oggi. La riduzione del tempo a poche decine di anni per trovarsi con il mare un metro più alto di oggi – forse anche prima del 2050 – cambia tutte le carte in tavola.
Il primo e principale autore dello studio, frutto di una ricerca pluri-annuale, è niente meno che James E. Hansen, già capo del programma di studi climatici presso la Nasa fino a due anni fa, attualmente professore allo Earth Institute della Columbia University di New York. Fu il primo nel lontano 1988 – insieme, in Italia, al Prof. Giampiero Maracchi – a svelare al pubblico la realtà del cambiamento climatico in una testimonianza al Congresso Usa.
Oggi, Hansen è considerato il più grande scienziato del clima del mondo, e comunque è il più citato nella letteratura scientifica (oltre 500 articoli in 50 anni di carriera, citato in quasi altri 50 mila articoli). Le sue previsioni, solitamente più gravi rispetto a quelle dell’organismo dell’Onu deputato ai rapporti sul clima, l’Ipcc, si sono sempre rivelate esatte, tanto che lo stesso Ipcc ha dovuto di volta in volta rivederle al rialzo in ogni rapporto periodico.
Sebbene tutto questo non significhi che Hansen stesso possa avere sempre ragione, il suo curriculum suggerisce almeno di prestargli attenzione anche quando, come nel caso in oggetto, si spinge verso previsioni che la maggior parte dei commentatori scientifici trovano decisamente allarmistiche sui grandi quotidiani, mentre sono considerate ancora con relativo scetticismo ma maggiore considerazione su riviste divulgative specializzate.
Oltre alla modellazione fisico-matematica molto avanzata dei processi di deglaciazione, in cui per esempio si pretende di risolvere il dilemma dell’aumentata estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide (che sarebbe il risultato proprio dell’immissione di acqua dolce leggera ma molto fredda sopra all’acqua salata più calda, confinata in profondità ed efficacissimo aggressore delle basi glaciali), spicca nel lavoro di Hansen il confronto con l’ultimo periodo interglaciale, detto “Eemiano”, culminato tra 130 mila e 115 mila anni fa, l’ultimo in cui le temperature superficiali della Terra furono più elevate di quelle odierne di circa 1 grado e il livello dei mari era compreso – al culmine – tra quattro e sei metri oltre i valori correnti (con una velocità di crescita di alcuni metri in meno di un secolo). Un periodo del quale, inoltre, sono documentati periodi caratterizzati da tempeste di enorme violenza, di cui Hansen e colleghi cercano di dare una misura attraverso articolari fenomeni come il trasporto di grosse rocce in certe isole dell’Atlantico (una presunta evidenza, questa, contestata da alcuni commentatori).
Con una procedura abbastanza inusuale, Hansen ha annunciato il suo nuovo articolo alla stampa, prima di pubblicarlo come una bozza aperta alla discussione su una importante rivista della Associazione geofisica europea (Egu). Il metodo nella scienza è importante: le conclusioni del lavoro, firmato da altri 16 scienziati tra climatologi, oceanografi, geologi e biologi di numerose istituzioni di primo piano in tutto il mondo, non possono considerarsi condivise dal mondo scientifico, almeno finché l’articolo non sarà disponibile in forma definitiva.
Il metodo scelto dagli autori riflette, per altro dichiaratamente, la necessità di rendere pubbliche alcune importanti scoperte in tempo utile per l’importante conferenza sul clima prevista a Parigi alla fine dell’anno corrente, in cui si dovranno decidere eventuali misure per la riduzione dei gas a effetto serra, anidride carbonica (CO2) e metano (CH4) in primo luogo.
Il metodo poco ortodosso può essere anche all’origine della scarsa, se non nulla, considerazione di cui le presunte scoperte di Hansen e colleghi hanno goduto per il momento in Europa e altrove nel mondo, eccetto che negli Usa, nonché dalla politica, cosa in fondo più comprensibile.
Noi stessi abbiamo esitato alcuni giorni prima di affrontare l’argomento, in attesa di un segnale indipendente che potesse almeno suggerire il grado di confidenza nei risultati del team di ricerca. Questo segnale è finalmente pervenuto con un commento di David Archer, professore di scienze geofisiche all’Università di Chicago, esperto di ciclo del carbonio e clima, nonché valutatore degli articoli scientifici per molte riviste di altissimo livello e a sua volta autore di centinaia di lavori.
Archer, pur criticando l’eccessiva ampiezza del lavoro del gruppo di Hansen e alcuni aspetti importanti ma non decisivi, come la ragione della differenza così profonda tra il comportamento dei ghiacciai dell’Antartide e della Groenlandia – questi ultimi meno reattivi al riscaldamento – riconosce che “questo è un altro capolavoro di Hansen di sintesi accademica, virtuosità modellistica e profondità, con importantissime implicazioni. Il principale motore dell’articolo, che ne ha consentito le scoperte fondamentali, nasce dalla confluenza di parecchi recenti sviluppi nel campo della glaciologia. In primo luogo, l’identificazione di una condizione di possibile scioglimento senza controllo dei ghiacciai costieri dell’Antartide occidentale, che rende le previsioni Ipcc per l’incremento del livello del mare al 2100 [intorno a 50 cm, NdR] chiaramente obsolete”.
“L’altro – continua Archer – è il riconoscimento che il riscaldamento degli oceani in corrispondenza della fronte terrestre sottomarina dei ghiacciai innesca un flusso [del ghiacciaio, NdR] veramente forte e quindi una risposta di scioglimento altrettanto forte. Le temperature a queste profondità oceaniche tende ad avere paradossalmente una relazione inversa con le temperature di superficie, che possono diminuire in risposta all’afflusso di acqua dolce, intrappolando il calore sotto la superficie del mare. Questa idea può anche spiegare il mistero per cui le gradi fusioni glaciali del passato sono avvenute in periodi relativamente freddi”.
Una materia, quindi, di enorme complessità, e un avvertimento, quello di James Hansen, che sarebbe buona idea tenere in considerazione.
L’Italia ha il pregio già oggi di poter vantare la maggiore produzione pro-capite al mondo di elettricità solare che potrebbe trasformarsi anche in un’occasione industriale strategica qualora la nostra stessa strada fosse seguita da altre nazioni, soprattutto se si rivedesse l’attuale politica sull’energia nucleare, la cui tecnologia viene applicata dall’industria italiana soltanto all’estero.
Francesco Meneguzzo
New York, 27 lug – Alcuni giorni fa, è stato annunciato negli Stati Uniti e quindi reso pubblico un lunghissimo articolo scientifico in cui si dichiara l’estrema pericolosità di limitare il riscaldamento globale anche entro la soglia finora considerata di sicurezza di due gradi in più rispetto all’era preindustriale. Oggi il riscaldamento supera gli 0,8 gradi e almeno 1,5 gradi sembrano inevitabili in considerazione del calore già immagazzinato negli oceani.
Il grado di pericolosità nel superamento di una soglia decisamente più bassa, circa 1,5 gradi, è misurato principalmente dal rischio che i ghiacciai continentali dell’Antartide (polo sud) – più di quelli della Groenlandia – si sciolgano a ritmi esponenzialmente accelerati, portando il livello del mare a crescere di cinque metri perfino durante questo secolo, nonché a tempeste di violenza sconosciuta soprattutto sull’Atlantico, le relative coste americane e gran parte dell’Europa occidentale.
Qui bisogna intendersi: la maggior parte degli scienziati del clima ritiene inevitabile che i livelli degli oceani e dei mari crescano anche di parecchi metri, ma gli effetti veramente dannosi o al limite insostenibili erano finora previsti non prima di 200 anni da oggi. La riduzione del tempo a poche decine di anni per trovarsi con il mare un metro più alto di oggi – forse anche prima del 2050 – cambia tutte le carte in tavola.
Il primo e principale autore dello studio, frutto di una ricerca pluri-annuale, è niente meno che James E. Hansen, già capo del programma di studi climatici presso la Nasa fino a due anni fa, attualmente professore allo Earth Institute della Columbia University di New York. Fu il primo nel lontano 1988 – insieme, in Italia, al Prof. Giampiero Maracchi – a svelare al pubblico la realtà del cambiamento climatico in una testimonianza al Congresso Usa.
Oggi, Hansen è considerato il più grande scienziato del clima del mondo, e comunque è il più citato nella letteratura scientifica (oltre 500 articoli in 50 anni di carriera, citato in quasi altri 50 mila articoli). Le sue previsioni, solitamente più gravi rispetto a quelle dell’organismo dell’Onu deputato ai rapporti sul clima, l’Ipcc, si sono sempre rivelate esatte, tanto che lo stesso Ipcc ha dovuto di volta in volta rivederle al rialzo in ogni rapporto periodico.
Sebbene tutto questo non significhi che Hansen stesso possa avere sempre ragione, il suo curriculum suggerisce almeno di prestargli attenzione anche quando, come nel caso in oggetto, si spinge verso previsioni che la maggior parte dei commentatori scientifici trovano decisamente allarmistiche sui grandi quotidiani, mentre sono considerate ancora con relativo scetticismo ma maggiore considerazione su riviste divulgative specializzate.
Oltre alla modellazione fisico-matematica molto avanzata dei processi di deglaciazione, in cui per esempio si pretende di risolvere il dilemma dell’aumentata estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide (che sarebbe il risultato proprio dell’immissione di acqua dolce leggera ma molto fredda sopra all’acqua salata più calda, confinata in profondità ed efficacissimo aggressore delle basi glaciali), spicca nel lavoro di Hansen il confronto con l’ultimo periodo interglaciale, detto “Eemiano”, culminato tra 130 mila e 115 mila anni fa, l’ultimo in cui le temperature superficiali della Terra furono più elevate di quelle odierne di circa 1 grado e il livello dei mari era compreso – al culmine – tra quattro e sei metri oltre i valori correnti (con una velocità di crescita di alcuni metri in meno di un secolo). Un periodo del quale, inoltre, sono documentati periodi caratterizzati da tempeste di enorme violenza, di cui Hansen e colleghi cercano di dare una misura attraverso articolari fenomeni come il trasporto di grosse rocce in certe isole dell’Atlantico (una presunta evidenza, questa, contestata da alcuni commentatori).
Con una procedura abbastanza inusuale, Hansen ha annunciato il suo nuovo articolo alla stampa, prima di pubblicarlo come una bozza aperta alla discussione su una importante rivista della Associazione geofisica europea (Egu). Il metodo nella scienza è importante: le conclusioni del lavoro, firmato da altri 16 scienziati tra climatologi, oceanografi, geologi e biologi di numerose istituzioni di primo piano in tutto il mondo, non possono considerarsi condivise dal mondo scientifico, almeno finché l’articolo non sarà disponibile in forma definitiva.
Il metodo scelto dagli autori riflette, per altro dichiaratamente, la necessità di rendere pubbliche alcune importanti scoperte in tempo utile per l’importante conferenza sul clima prevista a Parigi alla fine dell’anno corrente, in cui si dovranno decidere eventuali misure per la riduzione dei gas a effetto serra, anidride carbonica (CO2) e metano (CH4) in primo luogo.
Il metodo poco ortodosso può essere anche all’origine della scarsa, se non nulla, considerazione di cui le presunte scoperte di Hansen e colleghi hanno goduto per il momento in Europa e altrove nel mondo, eccetto che negli Usa, nonché dalla politica, cosa in fondo più comprensibile.
Noi stessi abbiamo esitato alcuni giorni prima di affrontare l’argomento, in attesa di un segnale indipendente che potesse almeno suggerire il grado di confidenza nei risultati del team di ricerca. Questo segnale è finalmente pervenuto con un commento di David Archer, professore di scienze geofisiche all’Università di Chicago, esperto di ciclo del carbonio e clima, nonché valutatore degli articoli scientifici per molte riviste di altissimo livello e a sua volta autore di centinaia di lavori.
Archer, pur criticando l’eccessiva ampiezza del lavoro del gruppo di Hansen e alcuni aspetti importanti ma non decisivi, come la ragione della differenza così profonda tra il comportamento dei ghiacciai dell’Antartide e della Groenlandia – questi ultimi meno reattivi al riscaldamento – riconosce che “questo è un altro capolavoro di Hansen di sintesi accademica, virtuosità modellistica e profondità, con importantissime implicazioni. Il principale motore dell’articolo, che ne ha consentito le scoperte fondamentali, nasce dalla confluenza di parecchi recenti sviluppi nel campo della glaciologia. In primo luogo, l’identificazione di una condizione di possibile scioglimento senza controllo dei ghiacciai costieri dell’Antartide occidentale, che rende le previsioni Ipcc per l’incremento del livello del mare al 2100 [intorno a 50 cm, NdR] chiaramente obsolete”.
“L’altro – continua Archer – è il riconoscimento che il riscaldamento degli oceani in corrispondenza della fronte terrestre sottomarina dei ghiacciai innesca un flusso [del ghiacciaio, NdR] veramente forte e quindi una risposta di scioglimento altrettanto forte. Le temperature a queste profondità oceaniche tende ad avere paradossalmente una relazione inversa con le temperature di superficie, che possono diminuire in risposta all’afflusso di acqua dolce, intrappolando il calore sotto la superficie del mare. Questa idea può anche spiegare il mistero per cui le gradi fusioni glaciali del passato sono avvenute in periodi relativamente freddi”.
Una materia, quindi, di enorme complessità, e un avvertimento, quello di James Hansen, che sarebbe buona idea tenere in considerazione.
L’Italia ha il pregio già oggi di poter vantare la maggiore produzione pro-capite al mondo di elettricità solare che potrebbe trasformarsi anche in un’occasione industriale strategica qualora la nostra stessa strada fosse seguita da altre nazioni, soprattutto se si rivedesse l’attuale politica sull’energia nucleare, la cui tecnologia viene applicata dall’industria italiana soltanto all’estero.
Francesco Meneguzzo