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Colonialismo: quando l’Italia abolì la schiavitù in Africa Orientale

by Marco Battistini
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Colonialismo

Roma, 14 ottobre – Argomento cardine della becera propaganda italofobica – e, più in generale, dell’immotivato senso di colpa che vede nell’uomo europeo l’unica espressione del peccato originale – il colonialismo è uno dei tanti argomenti tabù sul quale non possono esistere tesi e punti di vista diversi da quelli imposti dal politicamente corretto. Al contrario, chi desidera approfondire per davvero questa importante pagina del nostro paese, può farlo (anche) attraverso i libri di Alberto Alpozzi: tra gli altri citiamo il doppio volume dedicato appunto alle bugie coloniali. “Nell’analisi storica nazionale il comprendere è stato sostituito dal giudicare”: è lo stesso giornalista piemontese – nella prefazione della seconda fatica – a darci precise chiavi di lettura degli avvenimenti passati affinché non si cada nel luogo comune. Anche quando si parla di schiavitù nell’Africa orientale.

Colonialismo in Etiopia

Tra le pagine volte a smontare “decenni di retorica fabbricata ideologicamente” troviamo diversi capitoli dedicati alle condizioni di lavoro: proprio il 14 ottobre 1935 il quadrumviro Emilio De Bono, contestualmente alla conquista del Tigrè, decretava l’abolizione della schiavitù nella stessa regione abissina. Se è innegabile che durante la campagna d’Etiopia vennero usate armi e metodi contrari a quanto indicato dalle Convenzioni di Ginevra (da ambo le parti: all’uso dei gas si rispondeva con evirazioni e pallottole dum-dum), l’arrivo degli italiani in questo lembo d’Africa orientale coincise però con una netta risposta di giustizia sociale. Non dobbiamo poi dimenticare che, secondo il giornalista scozzese Patrick Balfour, a metà degli anni ‘30 del secolo scorso l’impero etiopico poteva essere assimilato a uno “stato primitivo di barbarie feudale simile a quello dell’Inghilterra del 1066 “.

Bandiera d’Italia, vessillo di libertà

Tale bando (“Genti del Tigrè, udite: voi sapete che dove sventola la Bandiera d’Italia ivi è la libertà. Perciò nel vostro Paese la schiavitù, sotto qualunque forma, è soppressa”) è quello più famoso ma, ovviamente, non l’unico. Basti pensare che già sul finire dell’Ottocento il governo liberale aveva provveduto ad abolire il servaggio nel territorio della Somalia italiana. Sempre qui, più precisamente nel Villaggio Duca degli Abruzzi – fondato nel 1920 proprio da Luigi Amedeo di Savoia-Aosta – venne per la prima volta applicato nel Continente Nero il sistema della compartecipazione. Particolare contratto di lavoro che prevedeva la consegna di un podere (già bonificato e irrigato) da coltivare sia con colture alimentari che industriali. I frutti delle prime spettavano alla famiglia, quelli delle seconda al locatore – ossia, la Società agricola italo-somala. Per altri raccolti, come la canna da zucchero o il ricino, la manodopera veniva pagata a giornata.

Italiani, un popolo di colonizzatori

In linea di massima nel continente africano la tratta di essere umani ha scoraggiato, ovviamente per motivi economici, lo sviluppo di qualunque altra forma di commercio. Ma come ci ricorda puntualmente Alpozzi, a differenza di altre realtà europee, mai l’Italia – né quella liberale, né quella fascista – ebbe una tradizione schiavista. Qualche giorno fa lo stesso studioso, sulle pagine del quotidiano “La Sicilia”, ha puntualizzato la grande differenza tra Stati colonialisti – Francia o Belgio, ad esempio – e popoli colonizzatori (“L’Italia ha mandato uomini, donne, bambini. Civili che coltivavano la terra…non terre da depredare, ma da fare rendere per dare lavoro, vita, denaro”). Tra le nove nazioni che nel 1919 fondarono l’Organizzazione Internazionale del Lavoro – oggi agenzia specializzata dell’Onu – troviamo anche il nostro paese. Il quale, nella sua eterna missione civilizzatrice, è da sempre in prima linea affinché lo sviluppo del mercato possa armonizzarsi a progresso e giustizia sociale.

Marco Battistini

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