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Da Manzoni al Risorgimento, cosa vuol dire festeggiare il 17 marzo

by La Redazione
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17 marzo 1861. Proclamazione del Regno d’Italia.
«Articolo 1. Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia.
Art. 2. Gli atti del Governo ed ogni altro atto che debba essere intitolato in nome del Re sarà intestato colla formula seguente: In nome del Re) Per Provvidenza divina, per voto della Nazione RE D’ITALIA »

17 marzo Unità d'ItaliaRoma, 17 mar – Il 17 marzo, malgrado l’istituzione della giornata dell’Unità nazionale, della costituzione (ma che c’entra?) e della Bandiera è un giorno totalmente dimenticato e tralasciato dalle autorità. Eppure, come scrisse il massimo storico italiano del XX secolo, Rosario Romeo, L’unificazione è stato l’evento più importante della storia italiana dopo la caduta dell’impero romano“. E, in momenti in cui impazza la pseudostoria clericoreazionaria, neoborbonica (che sembra avercela con i Piemontesi più per colpa della Juventus che di Garibaldi, e che confonde Vittorio Emanuele II con Higuain), dei nostalgici dell’angelicato impiccatore Cecco Beppe, dei vaneggiamenti delle varie leghe alla Zaia, quello che usa i soldi pubblici per pamphlet contro il risultato del plebiscito del 1866 (ignorando che al tempo della Repubblica Veneta del 1848 i risultati erano stati gli stessi), della solita sinistra antinazionale e cattocomunista, per cui solo parlar di Patria è atto di razzismo, fascismo e xenofobia ricordare è un dovere.

Forse si sarebbe potuto fare meglio, ma già è stato un miracolo così. E basta leggere cosa scrive Alessandro Manzoni ne “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859“, tornando poi sull’argomento  sulla questione italiana in uno scritto occasionale, elaborato fra il 1872 e il 1873, dal titolo Dell’Indipendenza dell’Italia, richiestogli dalla municipalità di Torino come contributo alla raccolta di autografi degli uomini illustri che in vario modo avevano collaborato idealmente alla causa dell’indipendenza nazionale. Gli orientamenti politici manzoniani emergono, indirettamente, dal carteggio con Rosmini, dove l’autore riprende i dialoghi avuti durante le lunghe passeggiate sul lago Maggiore. Manzoni condivideva l’aspirazione all’indipendenza e la campagna antiaustriaca dei romantici milanesi e sebbene fosse cattolico, fu avverso al potere temporale del papato ritenendo, inoltre, che la Chiesa non dovesse allearsi con le monarchie assolute, perché altrimenti avrebbe tradito i valori di libertà e di giustizia insiti nel cattolicesimo stesso. L’interesse verso un’opera che sembra collocarsi a latere del vasto e imponente corpus letterario manzoniano sorge dalla  considerazione della sua forte attualità, del senso dello Stato che da essa emerge, del valore sacro delle istituzioni, dell’invito a non confondere la libertà con l’arbitrio, la democrazia con la tirannia e la politica, nel significato più alto e nobile del termine, con la vile e abietta demagogia. Per il Manzoni mentre il Risorgimento è stato un processo legittimo sorto dal raccogliersi concorde d’un Re e del suo popolo per realizzare l’unità della nazione, la rivoluzione francese  è nata invece da una violenza non necessaria, l’abbattimento del regime di Luigi XVI, ed è culminata nell’«oppressone del paese sotto il nome di libertà» generando «la somma difficoltà di  sostituire il Governo distrutto con un altro Governo che avesse, s’intende,  le condizioni della durata».

La rivoluzione francese del 1789 è considerata illegittima e distruttiva perché mossa da folle violente di facinorosi che rappresentano soltanto una piccola parte della nazione francese, mentre la rivoluzione italiana del 1859 è ritenuta legittima e costruttiva perché moderata e sostenuta dalla volontà dell’intera nazione italiana. L’autore giudica un errore sul piano politico e morale l’atto iniziale della rivoluzione francese e cioè il costituirsi del Terzo Stato in Assemblea Nazionale: “per la distruzio­ne di quel Governo, intendiamo non il decreto formale con cui fu abolito il nome e l’ultime apparenze della Monarchia dalla Con­venzione Nazionale; ma un fatto anteriore di più di tre anni: voglio dire gli atti, con cui nel giugno del 1789 i deputati d’uno de’ tre Ordini che componevano gli Stati Generali adunati a Versailles, col crearsi da sé Assemblea Generale della Nazione, e col mantener sé in quel possesso, contro il divieto solenne del Re, annullarono di fatto il suo Governo”. Questo atto imprudente infatti, privando la Francia del suo legittimo governo, pose le basi della successiva degenerazione nella tirannia popolare: di un “popolo” che fu in realtà per Manzoni un gruppo di tribuni e demagoghi che si proclamarono arbitrariamente suoi rappresentanti. Questo giudizio distingue la posizione di Manzoni da quella, pure conservatrice e liberale, di Madame de Staël, che separava la prima positiva fase rivoluzionaria, quella del 1789, dalla seconda, con gli eccessi del 1793. Manzoni mostra un atteggiamento verso la massa rivoluzionaria non dissimile da quello con cui aveva rappresentato la folla tumultuante contro il rincaro del pane nei cap. XI-XIII dei Promessi Sposi. Anche nel saggio sulla rivoluzione francese torna la raffigurazione del popolo in rivolta come immagine  animalesca nei suoi comportamenti irrazionali e funesti: è infatti propria dello scrittore l’attitudine a cogliere e dipingere le “perverse passioni” che animano gli individui. Ma le passioni, se guidate da una legittima richiesta di libertà e indipendenza, possono condurre al giusto rovesciamento dell’ordine costituito, di un ordine che impedisce l’affermazione dell’unità nazionale e della sovranità dello Stato. L’Italia, a differenza della Francia, era sopraffatta e smembrata da potenze straniere, per cui aveva «l’evidente e sacrosanto diritto di levar di mezzo quella divisione e, per conseguenza, i vari Governi, ne’ quali era attuata» , ossia il diritto di liberarsi dall’oppressione straniera e generare uno Stato autonomo e indipendente, in virtù del principio dell’autodeterminazione del popolo.

La divisione dell’Italia in potentati sottoposti al controllo di Stati stranieri conduceva i governanti a sacrificare gli interessi dei sudditi in nome degli interessi della politica, così lo strazio e la vergogna di una nazione calpestata e smembrata generò la volontà di appropriarsi della propria terra, liberarla dalla dominazione straniera e realizzare il sacrosanto diritto all’autogoverno. Proprio qui sta la differenza tra la rivoluzione francese e quella italiana: in Francia, il Terzo Stato, costituendosi Assemblea Nazionale, ossia arrogandosi il diritto a  esercitare il potere politico, pretende indebitamente di rappresentare gli interessi di tutta la nazione e non solo del gruppo sociale di cui detiene la rappresentanza. In nome di questo diritto distrugge il governo e dà vita a una tirannia popolare, ossia al dominio dispotico di una parte della società sull’intero corpo nazionale, cosa che generò la guerra civile, ossia lo scontro sanguinoso tra i rivoluzionari e i controrivoluzionari della Vandea. La lacerazione dello Stato dunque, prima dell’abbattimento della monarchia, è causa di discordia, barbarie, violenza e instabilità politica. In Italia invece, lo Stato è già lacerato, anzi è proprio la divisione e il conseguente bisogno di unità nazionale a legittimare la distruzione del governo, anzi dei governi, che rivaleggiano tra di loro a spese del popolo.

Buon compleanno Patria!

Pierluigi Romeo di Colloredo

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