Roma, 16 nov – Il soldato è innamorato solo del suo fucile, questo è vero. Però, c’è da dire che senza il lavoro di abili medici, sarebbe senza alcun tipo di protezione nel momento in cui si trova a dover combattere contro un nemico impervio. Loris Annibaldi era un soldato ma, al contempo, anche un medico. Il suo ruolo al fronte fu di fondamentale importanza.
Il Bersagliere urologo
Loris Annibaldi era originario di Offida, un paesino di appena 5000 anime in provincia di Ascoli Piceno. La sua vocazione fu, però, quella per la medicina. Tale vocazione venne esaudita quando, una volta trasferitosi a Torino, venne ammesso al corso di medicina. Il giovane ascolano seguì la strada dell’urologia laureandosi alla fine degli anni ’30.
Tra l’aprile e l’agosto del 1938, Annibaldi frequentò il corso per Allievo Ufficiale medico a Firenze terminandolo con successo con il grado di aspirante ufficiale. La sua preparazione terminò nel febbraio 1940 con il trasferimento all’interno dei Bersaglieri e la promozione a sottotenente.
A qualsiasi costo
Loris Annibaldi partecipò ai combattimenti sia in Francia che in Jugoslavia. Il suo motto? Mai arrendersi, salvare quante più vite possibili. La sua figura divenne famosa pressoché ovunque proprio per la sua propensione all’altruismo. Sguizzava in mezzo alle bombe ed alle mine per portare in salvo i soldati feriti. Inviso alla morte, arrivò in Albania con una notevole fama.
Ad Erseke, Loris Annibaldi morì mentre cercava di difendere, per quanto possibile, i suoi compagni dai nemici lanciando bombe a mano. Non poté nulla di fronte all’avanzata e decise di sacrificare la sua vita con l’ultima granata rimastagli. Era il 21 novembre 1940. In suo onore, gli venne tributata una medaglia d’oro al valor militare: “Ufficiale medico di battaglione, si offriva di far parte di un reparto incaricato di attuare un colpo di mano nelle linee nemiche. In nove successivi giorni di continui aspri combattimenti, si prodigava in maniera ammirevole nella sua missione, distinguendosi per coraggio ed altruismo. Ferito ad una gamba rifiutava di essere sgombrato e ordinava ai porta feriti di portargli vicino i colpiti per prestar loro le prime cure. Rimasto sul terreno della lotta, dopo che i superstiti del battaglione, rotto il cerchio nemico che li rinserrava, si erano aperti un varco, al nemico sopraggiunto, che gli intimava la resa, rispondeva con le ultime bombe a mano provocandone la reazione che lo colpiva mortalmente. Immolava così la sua fiorente giovinezza per aver voluto generosamente oltrepassare i limiti dei più alti doveri di soldato e di medico”.
Tommaso Lunardi