In esclusiva per il Primato Nazionale il primo capitolo dell’esordio di Timothy Casanova “Fashion Mafia” da oggi in libreria per Fanucci editore. Un pulp ironico e scanzonato, tra cosche mafiose, soldi, sesso, intrighi e botte da orbi… e con qualche morto ammazzato.
Ambientato tra Sicilia e Lombardia il romanzo è un perfetto connubio di arguzia e intrighi, pur mantenendo un tono leggero e scanzonato. Ma non è solo una storia da copertina perché, caso unico nella storia della musica e dei libri, da questo romanzo nasce l’omonima canzone di Mered, Fashion Mafia, il nuovo successo rap, distribuito dall’etichetta discografica The Saifam Group.
DO-DO DO-DO-DO DO-DO-MI DO-DO-DO! MI-MI MI-MI-MI MI-MI-SOL MI-MI-MI! MI-MI-MI-MI-MIIIIII-FA-MIIIIII! Cazzo, non ce n’è. Tutte le volte che attacca la musica di Rocky, io parto con lui. È lì che corre per Philadelphia, è l’alba. Poche settimane prima era un relitto, si alzava e beveva uova crude. Che poi quella scena io ho provato a farla, ma buttare giù cinque uova mi fa venire un urto allo stomaco che te lo raccomando. E adesso, guardalo come corre su quella scalinata, che un giorno ci dovrò andare anch’io a Philadelphia a farmela quattro gradini alla volta! È fine maggio e fa già un caldo porco. Sono le 2:30 del pomeriggio. Mi gratto un’ascella prima, e tiro via i pelucchi della maglietta dall’ombelico poi. Mi rigiro nella poltrona e attendo la prossima, mitica, scena del capolavoro cinematografico che scorre sul mio quattromila pollici ‘caduto da un camion’ qualche settimana fa. Dlin-dlon! Già. È un suono un po’ antiquato per un campanello, ma mi piace. Premo Pause e mi alzo. Dlin-dlon! Eccheccazzo! Arrivo!«Chi è?» dico, brutto, al citofono. La voce la riconosco, il tono non lo capirò mai. «Oh, bello. Dai che sono già le 2 passate, e quello non ci aspetta. Scendi giù che oggi lo buco.» «Senti, vatti a fare una camomilla. Adesso mi preparo e scendo.» «E che cazzo ti devi prepararti?! Scendi e basta, no? Dai che sto fuso!» Cazzo ti devi prepararti? Tipico linguaggio del gran signore che sta sotto casa mia. Al secolo Marietto Sapienza, nipote del capo della cupola palermitana Vito Sapienza e figlio del di lui fratello Riccardo. Vent’anni o giù di lì. Istruzione sommaria. Linguaggio sommario. Intelligenza sommaria. Futuro molto sommario. «Cinque minuti» gli faccio, e butto giù la cornetta. Infilo al volo una camicia nera, jeans Just Cavalli neri, calze e occhiali dello stesso colore e Nike bianche, perché già so che anche quel coglione sarà vestito tutto di nero. Mi do una specie di sciacquata alla faccia, poi, visto che sono passati solo tre minuti, e non mi pare proprio il caso di scendere in anticipo, me ne torno davanti al televisore. Play. E Rocky ricomincia a correre sulla gradinata di Philadelphia, arriva in cima e inizia a saltare, saltare e saltare. Poi le immagini rallentano, inquadrano la città che si sveglia e lui grida, con la voce ingavonata di Amendola: «Ce l’ho fatta!» Ah, che groppo in gola! Dlin-dlon! Come si permette questo idiota di disturbarmi ancora? Pigio Stop e chiudo la porta con due mandate, scendo in strada e Marietto è lì, vestito di nero come immaginavo. Appoggiato a una macchina fuma e fa la faccia da duro. Mi vede, raddrizza la schiena e mi rivolge un’espressione complice mentre mostra il gonfiore del suo coltello attraverso i jeans. Scrollo la testa. Ci avviamo. È alto un metro e settanta, quindi gli lascio più di venti centimetri, ma anche se per guardarmi in faccia storce il collo, sembra che quello alto sia lui. «Allora? Che minchia dovevi fare? Il bucato?» mi chiede. Ha un accento misto tra siciliano e milanese perché ha vissuto a Lodi. Riccardo aveva paura a lasciarlo a Palermo. Lo guardo con l’espressione fatti i cazzi tuoi e dico: «Ma con tutti i tirapiedi che ha tuo zio, proprio me dovevi scegliere per trapanarmi le palle?» «Bella fratello! È che tu sei troppo forte. E lo dice anche lo zio Vito che se sto con te ho tutto da imparare. Gli altri sono dei morti in piedi. Tu invece alla gente gliela spacchi la faccia!» «Tu non hai ancora capito. La faccia gliela spacchi solo se serve. Se puoi eviti. Ti è chiara ’sta cosa?» Il coglione ride. «Sì, come a quello della monnezza, eh?» Quello della monnezza? Chi cazz… ah, già. Un cretino che col suo Ape della nettezza urbana l’altra sera mi ha sfrisato l’Audi. Non mi ero nemmeno tanto arrabbiato, ma quello è sceso e mi ha guardato in faccia con l’aria di chi ha ragione. Gli ho detto, quasi gentile, di guardare cosa aveva fatto. Mi ha risposto: «E chimminghia me ne futt’ammia? Telefona o comune.» E ha fatto per andarsene. Be’, non se n’è andato quasi per niente. Ma non gli ho fatto tanto male. Credo. «Quello della monnezza non c’entra. Erano cose private. Qui, invece, si parla di lavoro.» Lavoro… chiamiamolo così. In effetti andare a insegnare a riscuotere quello che tutti chiamano ‘pizzo’ e che io, invece, da nobile quale sono, chiamo ‘contributo’ non è esattamente una di quelle professioni gradite ai parroci. Nel frattempo il giovane mi tocca. Mi prende per un braccio e mi fa: «Oh, lo sai che stamattina mi sono calato una roba da paura?» E ride ancora. Io non ce l’ho coi tossici, ma che almeno non mi vengano a scassare il cazzo. Sono un po’tossico anch’io ma lo tengo per me. «Ero così fuori, prima, che a momenti tiravo sotto un vigile! Ah ah ah!» Mi fermo. Lo guardo negli occhi e abbasso il tono di voce. «Non mi toccare mai più.» Lui guarda la sua mano dalle unghie sporche che stringe il mio braccio destro. La ritrae all’istante. «Minchia, oh, come stai messo fra’? Non ti si può nemmeno toccarti!» Non sto a ripetergli che non sopporto le mani addosso, tanto questo qui i pochi neuroni che gli sono stati dati se li è già giocati. «Vabbè, non perdiamo tempo. Andiamo da questo cornuto, prendiamo i soldi e leviamoci dalle palle.» «Tanto quello i soldi non ce li ha!» Questa è la prima cosa che dice che abbia un senso. In effetti Elia i soldi non ce li ha di sicuro. È indietro coi pagamenti e siccome continua a spendere per comprarsi cose bianche, vestiti, auto, moto, scarpe, adesso si inventerà qualche storia per rimandare ancora il suo contributo. Mi rimetto a camminare. «Prima ci parliamo e dopo vediamo cosa fare. Okay?» «Sì, ma io oggi lo buco, quello!» «Allora rettifico. Prima ci parliamo e dopo vedo io» calco bene la parola ‘io’ «cosa fare. Ti è chiaro adesso?» «Sì, ma se non paga è la volta che gli faccio partire il fegato!» Mi fermo di nuovo. «Ma mi ascolti o che cosa? Tu non fai un cazzo se non te lo dico io.» Alzo la voce. «Ripeti con me: ‘Io non faccio un cazzo se non me lo dici tu.’ Avanti.» Il coglione mi guarda. Poi guarda per terra. Sputa e dice, che quasi sembra vero: «Sì, sì, va bene. Io non faccio un cazzo se non me lo dici tu.» Dopo qualche minuto siamo in una via centrale dove Elia ha il suo negozio di occhiali. Bel negozio, ben frequentato e ben condotto. Gli occhiali da sole li compro qui anch’io. Ce li ho su adesso… Suoniamo e lui compare da dietro il bancone. Fa un gesto per dire ‘siamo ancora chiusi’, poi mi vede in faccia e cambia la sua. Fa cenno di aspettare. Passano trenta secondi durante i quali il giovane coglione mi dice qualcosa di inutile, poi Elia apre. Il tipo va descritto. Alto un metro e un cazzo, pelle e ossa, lunghi capelli neri, sorriso scintillante, sempre tirato a lucido. Avrà un quarantotto-quarantanove anni ma ne dimostra quaranta. Sempre in vestito bianco e camicia nera aperta sul davanti, con catene Dolce & Gabbana al collo che risaltano sul petto rasato. Carattere allegro, aspetto ricco, parlata fluente. Chissà le fighe che si scopa questo. «Ciao Timothy. Non ti aspettavo così presto.» Lo guardo con l’espressione non mi prendere per il culo. «Allora, amico, come butta? È un po’ che abbiamo una cosa in sospeso, no?» Mi guardo intorno, intanto. Cazzo, sono arrivati i nuovi Ray-Ban polarizzati. Bellissimi! «Sì, ma lo sai che sto mettendo tutto insieme… Ehi, lascia stare!» Il giovane coglione sta provando un paio di Chanel da donna che devono costare quanto lo stipendio di un tranviere. Lo fulmino con lo sguardo adesso mi incazzo e lui mette giù gli occhiali e si sistema dietro di me. Mi giro verso Elia. «Lo so. Me lo hai già detto due volte» dico con tono molto gentile. «Ma qualcosa avrai raccolto nel frattempo.» «Guarda, Timothy, ti giuro che entro due settimane ti do tutto… o quasi, ma oggi sono proprio a corto.» «Sei a corto. Oh! Quanto mi dispiace.» L’occhialaio comincia a capire di essere nella merda. «Senti, posso darti mille euro, poi tra due settimane saldo tutto. Giuro.» «Elia, non mi far diventare cattiv
o. Con mille euro se vuoi ti compro una corona di crisantemi per il tuo funerale. Me ne devi quattro volte tanto. Lo sai.» Si guarda intorno e farfuglia qualcosa tipo: «Ma dai, Timothy, io te li do, lo sai… è un momento un po’… mia moglie mi caga il cazzo per…» E poi fa una cosa elencata al n. 17 nel prontuario delle 101 cose da non fare davanti a un mafioso. Anzi un mafioso e mezzo… c’è anche il giovane coglione con me. Scappa. Si infila nel retro del negozio e chiude la porta. «Non ce li ho i soldi!» grida. «Te li do fra quindici giorni, te lo giuro! Lasciami stare!» Marietto corre subito alla porta e comincia a tirare pugni al fragile legno bianco. «Vieni fuori, figlio di puttana. Fanculo! Se non esci metto i tuoi occhiali sul pavimento e ci ballo sopra la techno!» Però! D’immagine la cosa. Per un attimo mi pare una buona idea, ma subito mi rendo conto che va contro la regola: non distruggere l’attività di chi ti deve pagare; se gliela distruggi stai sicuro che non ti pagherà più. Mi avvicino alla porta e dico: «Elia, non fare cose di cui poi ti devi pentire. Apri.» «Lasciate stare i miei occhiali!» «Dai, Timothy! Glieli spacchiamoglieli tutti!» mi dice il giovane. Elia apre la porta. «No! Digli di non toccarli!» mi grida in faccia. Marietto è flippato per davvero. «Col cazzo! Adesso divelgo tutti ’sti cazzi di occhiali da checca che tieni qua!» Divelgo? Dove è andato a inciampare su una parola del genere questo analfabeta? «No! Timothy, diglielo! Diglielo!» «Ah ah ah! Ti caghi sotto, eh? Ma io ti buco!» Faccio la faccia state calmi o è la volta che mi incazzo veramente nella sua versione più hard. «State calmi o è la volta che mi incazzo veramente» dico per non essere frainteso. Sono credibile. Si azzittiscono tutti e due. «Elia, mi spieghi com’è che i soldi per comprarti il Jaguar nuovo ce li hai, ma per noi non hai mai niente?» «È mia moglie che lo voleva. Io avrei aspettato ma lei diceva che ci voleva una macchina nuova!» Parlare è una buona cosa. Risolve il 99% delle situazioni, ma a volte serve un incentivo. Ho un’ispirazione. Come reagisce Rocky quando va a fare il mio lavoro di oggi e la gente non paga? Gli rompe il pollice. Non gli va di farlo e neanche a me va di farlo, Elia mi sta simpatico. Ma è lavoro. Gli prendo il pollice con tutta la mano e tiro all’indietro. Fin dove non si può. La gente urla in tanti modi, ma non mi fa mai impressione. Il rumore che fanno le ossa e i tendini quando si rompono, invece, sì. Mi trapassa sempre i timpani. È un po’ come un ramo di ciliegio che si spezza. Un suono secco e definitivo. Elia urla. Dice qualcosa in dialetto. Comincia a lacrimare. Gli lascio libero il braccio e lo guardo con comprensione. Gli farei la faccia io non c’entro niente, faccio solo il mio lavoro ma lui non mi sta guardando. «Me lo hai rotto. Oddio. Me lo hai rotto» piagnucola. «No, non te l’ho rotto. È solo slogato.» Forse. «E poi è il sinistro. Stai calmo, lo sai che poteva andare peggio.» «Ma io i soldi non ce li ho. Ho perso quindicimila euro a poker.» Singhiozza. «Allora i soldi ce li aveva, ’sto bastardo!» grida Marietto. «Bambino di merda! Tu che cazzo vuoi?» Elia è disperato. Sto scegliendo che modello di faccia fare, quando accade l’imprevisto. Il giovane idiota sfodera il suo coltello a serramanico e, senza che io riesca a intervenire, dice: «Bambino di merda a chi? Beccati questa, stronzo!» E lo conficca nel fianco destro di Elia. Una coltellata nel fegato fa un rumore sommesso, come quando agiti un barattolo pieno di vernice. Solo che è un rumore difficile da percepire perché di solito chi la subisce urla così forte da coprire tutto il resto. Ed Elia, cazzo se urla. Devo riprendere il controllo della situazione. Stringo a pugno la mano destra e tiro un cartone in fronte a Marietto con forza 80%. Col 100% lo manderei all’ospedale, invece mi basta che stia fuori dalle palle per un po’. Il giovane idiota stramazza a terra con un gemito. Estraggo il coltello dal fegato di Elia e, dopo una rapida occhiata, mi accorgo, con grande sollievo che il coglione lo ha colpito più in alto, nel costato, e la lama non è andata dritta dentro, ma ha seguito un percorso lungo la costola. Se Elia fosse un Navy seal direbbe: ‘Tranquilli ragazzi, non mi sono fatto niente.’ Ma da un occhialaio di Palermo centro non me lo aspetto. Infatti piange e dice cose tipo ‘Sono morto!’ o giù di lì. Il sangue è tanto. «Scusalo, Elia, è un giovane e non sa bene quello che fa.» «Scusalo? Mi ha ucciso!» «No, dai, non ti ha ucciso.» Mi pare un dialogo un po’ surreale. «Siediti qui adesso e cerca di stare calmo. Ti ha fatto solo una grossa puntura. Togliti la giacca e la camicia. Aspetta che ti aiuto.» La ferita messa a nudo è un bel taglio netto. Va detto che io, nonostante gli anni di esperienza, ancora faccio fatica a reggere la vista del sangue. Di sicuro sono un po’ impallidito, ma non credo che a qualcuno gliene freghi qualcosa. C’è un rotolo di carta per asciugare le mani, lo prendo e tampono la ferita. Dopo dieci minuti la situazione sembra ristabilita. Il taglio non perde quasi più sangue ed Elia non crede più di morire. Ma respira a raffica e si tiene il pollice offeso. «Senti, facciamo così» gli dico. «Con l’idiota me la sbrigo io e gli faccio passare la voglia di prendere iniziative di questo genere. Mentre per quanto riguarda te…» Faccio una pausa e lo guardo negli occhi. «Che cosa hai intenzione di fare?» Elia ha recuperato un po’ di lucidità, perché fa la domanda giusta. «Dimmelo tu. Cosa devo fare?» Devo concedere qualcosa. «Tu adesso chiami la polizia e dici che sei stato vittima di un tentativo di rapina. Era uno solo. Tu gli hai dato dei soldi, che così te li ridà l’assicurazione, ma lui ne voleva di più e ti ha picchiato e accoltellato.» Nel frattempo Elia annuisce. «A me e a quel demente» indico Marietto a terra «non ci hai mai visti, okay?» Elia mi guarda. «E…?» Devo concedere qualcosa, l’ho detto. «E in effetti non ci vedrai più per un pezzo. Diciamo che quello che ci devi è saldato ed è saldato anche tutto l’anno in corso. Okay?» In cambio di una specie di tentato omicidio mi pare ragionevole. Ci pensa un secondo, poi dice: «Facciamo fino a maggio prossimo. Un anno.» Me ne voglio andare velocemente. Qualcuno da fuori potrebbe aver visto qualcosa. «Va bene. È il tuo giorno fortunato. Un anno di bonus. Buon Natale e buon anno. E anche buona Pasqua. Ci vediamo a ciliegi fioriti l’anno prossimo.» «Lo so che tu non c’entri» mi dice, inaspettatamente. «Prenditi un paio di Ray-Ban polarizzati, sono una meraviglia.» Mi sento un po’ un coglione ma dico: «Va bene. Grazie… amico.» Li prendo, poi mi avvicino a Marietto, gli tiro un calcio nello stomaco a potenza 60% e un paio di sberle in faccia. Il coglione rinviene e sputa un po’ di bava rosata. Che schifo! «Che cazzo è successo?» Poi si ricorda qualcosa. «Mi hai dato un pugno in faccia?» «E anche un calcio nello stomaco. Alza il culo che sfanghiamo.» Si rimette in piedi e guarda Elia, quasi nemmeno lo riconosce. «Minchia che mal di testa.» «Lo rimpiangerai quando sentirai quello che ti faccio venire dopo. Andiamo.» Saluto Elia con un cenno del capo, infilo gli occhiali nuovi nel taschino ed esco in strada come se niente fosse. Il coglione dietro di me come un cagnolino. «Ma cos’è successo?» «È successo che se non fossi figlio e nipote di chi sai, ti avrei già ammazzato con le mie mani.» «Ma io non mi ricordo bene…» «Dopo te lo ricordo io, non ti preoccupare. Te lo ricordo per filo e per segno.» Ma penso che dovrò rimandare. Alle 16 ho appuntamento col dentista!
Esclusiva: il primo capitolo di "Fashion Mafia", pulp ironico tra soldi, sesso e botte da orbi
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