Roma, 2 feb – E’ passato quasi un anno dal terribile evento sismico che colpì il Nepal lo scorso 25 aprile. Quel giorno un sisma di magnitudo 7,8 si generò a 82 km a nordovest di Kathmandu causando circa 9 mila morti, 23 mila feriti e portando distruzione in una vasta area del Paese radendo al suolo circa 500 mila abitazioni.
La zona della catena himalayana, per le sue particolari caratteristiche geologiche, ovvero trovandosi tra due margini continentali convergenti, è sempre stata molto attiva dal punto di vista sismico, al pari di altre situazioni simili dal punto di vista strutturale riscontrabili in altre parti del Pianeta: dove due margini di placca si toccano c’è sempre attività sismica più o meno intensa. L’Himalaya si è formato nell’arco di milioni di anni dal movimento convergente tra la placca indiana e quella eurasiatica che si avvicinano ad un rateo relativo di circa 50 mm/anno. Gran parte di questo movimento, circa 18 mm/anno è responsabile dell’innalzamento, tutt’ora attivo, della catena himalayana. Pertanto la regione di confine tra queste due placche tettoniche ha una lunga storia di importanti sismi, facendone una delle regioni sismicamente più pericolose del mondo insieme al Giappone, al Cile e alla California.
La raccolta dei dati relativi al sisma del 25 aprile 2015 è stata ostacolata sia dalla carenza di stazioni di rilevamento sismico nell’area, sia dal fatto che i dati delle stazioni più vicine non sono di pubblico dominio, ciononostante si è riusciti, tramite l’analisi dei dati di quelle disponibili, tramite il network rappresentato dai questionari dell’USGS “Did you feel it?” (DYFI), strumento questo anche utilizzato per i sismi italiani dall’INGV sotto la voce “Hai sentito il terremoto?”, e soprattutto tramite le immagini satellitari InSAR che hanno permesso di osservare le rotture superficiali ed i movimenti di frana, a ricostruire la dinamica della struttura sismogenica nepalese e a vedere quanto la Terra “è cambiata” dopo il sisma.
Scopriamo così che il terremoto si è originato ad una profondità che, per le Scienze della Terra, è considerata relativamente superficiale (12-15 km), che i dati InSAR indicano l’assenza di fatturazione superficiale né lungo la faglia che ha generato il sisma né lungo altre che hanno prodotto precedenti terremoti. Dati confermati da una campagna di rilevamento sul campo condotta dagli scienziati nei mesi immediatamente successivi all’evento di aprile; campagna che ha anche permesso di stabilire che la faglia che si è mossa nel 2015 giace vicino a quelle che ha generato il terremoto del 1934.
Ma quello che tutti vogliono sapere è se il sisma ha “alzato” il monte Everest. Ebbene i dati ricavati dal sistema di mappatura GPS posizionato da scienziati cinesi nel 2005 hanno stabilito che il massiccio dell’Everest non è diventato più alto, o più basso, bensì lo spostamento lungo la faglia ha dislocato l’intera montagna di 3 cm verso sudovest, lasciandone l’altezza ancora ferma ai suoi 8848 metri. Cinematica che ben si adatta al modello geologico ricavato per l’area himalayana.
Ci preme sottolineare come gran parte del lavoro che ha portato a queste considerazioni sia stato fatto tramite il network DYFI dell’USGS, pertanto risulta molto importante per la ricerca in Italia compilare l’analogo modulo che si può trovare sul sito dell’INGV ogni qualvolta avviene un sisma di intensità superiore a M2. Qualora si sia sentito un terremoto, ma anche nel caso che non lo si fosse avvertito e si risieda in una zona colpita dal sisma più o meno intenso, è importante collegarsi al sito per compilare il questionario “hai sentito il terremoto?” che si trova sulla pagina apposita con l’elenco dei sismi avvenuti giornalmente; in questo modo si forniscono importanti dati per la ricerca geofisica, volta anche a cercare una metodologia di prevenzione dei sismi.
Paolo Mauri