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Quando il fascismo concesse il voto alle donne

by Adriano Scianca
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Roma, 3 feb – Agli inizi di ogni anno, il femminismo italiano entra sempre in fibrillazione per celebrare l’anniversario del voto concesso alle donne. Era il 30 gennaio del 1945, quando il Consiglio dei ministri dell’Italia badogliana approvò il suffragio femminile. Il decreto fu emanato il giorno dopo: potevano votare le donne con più di 21 anni ad eccezione delle prostitute che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”. L’eleggibilità delle donne venne invece stabilita con un decreto successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946. Le amministrative di quell’anno, svoltesi in varie date per eleggere i sindaci in tutte le città d’Italia, furono la prima occasione di voto per le donne italiane.
Pochi sanno, tuttavia, che, almeno il diritto al voto amministrativo era già stato concesso loro sotto il fascismo, anche se non avevano mai avuto occasione di esercitarlo. Una circostanza che ribalta un po’ di stereotipi sulla presunta misoginia del fascismo. Il rapporto tra il regime mussoliniano e il voto alle donne è in realtà piuttosto complesso e, a tratti, anche contraddittorio. Andiamo a vedere. Tanto per cominciare, durante la riunione di piazza San Sepolcro, all’atto fondativo del fascismo, Mussolini dichiarò: “Chiediamo il suffragio universale, per uomini e donne”. All’epoca, il programma del primissimo fascismo era decisamente progressista in tutto, voto alle donne compreso.
A ben vedere, tuttavia, le cose non cambiano neanche dopo la presunta svolta a destra di Mussolini. Il 9 maggio del 1923, quando quindi era già al governo da un anno, il Duce dichiarò: “Io penso che la concessione del voto alle donne in un primo tempo nelle elezioni amministrative in un secondo tempo nelle elezioni politiche non avrà conseguenze catastrofiche come opinano alcuni misoneisti, ma avrà con tutta probabilità conseguenze benefiche perché la donna porterà nell’esercizio di questi vivaci diritti le sue qualità fondamentali di misura, equilibrio e saggezza”. Il contesto era la discussione di un disegno di legge presentato dall’onorevole Acerbo che concedeva il voto amministrativo alle donne. Mussolini lo difese contro l’opinione corrente dell’epoca, che peraltro trovava su posizioni contrarie lo stesso monarca. In quello stesso periodo, Mussolini intervenne anche al congresso dell’Alleanza internazionale pro suffragio femminile, tenutasi a Roma. E tuttavia il disegno di legge, mai approvato, decadde quando furono sciolte le camere.
Venne però ripreso in mano nel 1925, per essere infine approvato: nell’Italia fascista potevano votare alle elezioni amministrative le donne che avessero compiuto gli studi elementari inferiori o pagassero una data imposta, esercitassero la patria potestà o la tutela, avessero certe benemerenze civili o fossero madri o vedove di caduti di guerra. A parte poche donne nominate membri onorari di consigli comunali, tuttavia, la norma non entrò mai in vigore: pochi mesi dopo, infatti, venne decisa la non elettività delle cariche amministrative. Nel 1938, tuttavia, ci fu un’altra occasione mancata: nel testo che decretava la nascita della Camera dei fasci e delle corporazioni, comparve a un certo punto un’aggiunta, voluta da Mussolini in persona, che rendeva anche le donne eleggibili come consiglieri nazionali. La postilla venne però, alla fine, stralciata. Secondo Renzo De Felice, la spiegazione più probabile è che Mussolini abbia fatto marcia indietro per non indispettire il re, che aveva visionato e firmato un testo privo di quell’aggiunta, alla quale sarebbe stato peraltro contrario. Per evitare una crisi con la corona, il Duce avrebbe preferito non dar seguito al suo proposito.
Vi è infine da segnalare un’altra occasione mancata: durante la Repubblica sociale, il ministro dell’Educazione Nazionale, Carlo Alberto Biggini, redasse una Costituzione che non fu mai promulgata, in quanto il Consiglio dei Ministri del 18 dicembre 1943 decise di rinviare la convocazione di un’Assemblea Costituente successivamente alla fine della guerra. In quel testo, all’articolo 17, si legge: “La Camera dei rappresentanti del lavoro è composta di un numero di membri pari a 1 ogni 100.000 abitanti, eletti col sistema del suffragio universale diretto da tutti i cittadini lavoratori maggiori degli anni 18”. Si parla quindi di suffragio universale, così come, all’articolo 87, si fa lo stesso per quanto riguarda l’elezione dei consigli comunali e provinciali. Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di un’affermazione di principio che le contingenze storiche impedirono di veder attuata nella realtà. Tutto concorre comunque a indicare che anche il fascismo sarebbe infine arrivato a riconoscere la piena partecipazione politica delle donne alla vita nazionale. Probabilmente prima della democratica e civile Svizzera, che ci arrivò solo nel 1971.
Adriano Scianca

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