Ma perché è così importante la fedeltà? E, soprattutto, fedeltà a chi, a cosa, perché? Nel matrimonio cristiano, esplicitamente concepito come un male minore rispetto alla fornicazione, laddove la via preferibile ma non estendibile a livello di massa resta l’astinenza, essa ha la funzione di tracciare il perimetro morale al cui interno la sessualità è lecita. Le cose stavano altrimenti a Roma, dove la fedeltà doveva tutelare soprattutto l’autenticità della discendenza (ed è il motivo per cui adulteri e incestuosi non sono condannati in sede morale, ma alla stregua di ladri, ovvero come coloro che rubano il bene più prezioso di un uomo).
Ma, soprattutto, a Roma la fedeltà era un “valore” (il termine in realtà è improprio) che permeava tutta la realtà sociale, politica, economica e religiosa. Fidelitas, a Roma, è l’espressione della fides. “Non vi è sentimento più elevato, più sacro della buona fede”, diceva Dionigi di Alicarnasso. Fides era anche una divinità, che aveva un tempio sul Campidoglio, vicino a quello di Giove Ottimo Massimo. Secondo Dumézil, era “la dea prediletta di Numa”, il secondo re della leggenda, una sorta di doppione saggio, pio, calmo dello scatenato Romolo. Poiché Numa è considerato colui che dette a Roma le sue leggi e i suoi riti, possiamo capire quanto Fides avesse a che fare con l’essenza stessa della romanità.
In latino, il sostantivo fides e il verbo credo sono strettamente legati, con un nodo concettuale che passerà nel cristianesimo, con un significativo slittamento di senso. La fede, per il cristiano, è il credere in qualcosa che va al di là della logica: credo quia absurdum, dice Tertulliano. Ha quindi a che fare con la credenza in qualcosa che non è evidente, che non è visibile. Credenza, peraltro, individuale, privata. A Roma, invece, la fides aveva a che fare proprio con ciò che doveva essere evidente: la qualità di un soggetto che appare “affidabile” rispetto ai suoi comportamenti e alle sue parole. La cosa aveva una dimensione sin da subito comunitaria: parlare di fides rispetto a un eremita sarebbe stato impossibile, poiché essa implica relazione con gli altri. In quest’ottica, un uomo è tenuto a essere fedele in primo luogo a se stesso, ovvero ad agire conformemente all’immagine del cittadino onesto e valoroso che ci si aspetta che egli incarni.
Non è un caso se noi parliamo di “fede in Dio” mentre i Romani parlavano di “fede degli Déi” (fides deorum). Gli Dèi sono i sommamente affidabili, coloro di cui ci fidiamo e in cui confidiamo. Sono anche coloro che chiamiamo a testimoniare la nostra, di buona fede. E se, facendolo, mentiamo, siamo puniti non per un peccato morale, ma per un crimine cosmico: giurando il falso in nome degli Dèi abbiamo rotto la pax deorum. L’esperienza romana della realtà è intessuta di questa trama di fede e fedeltà. Ne nasce un ordine comunitario che è il riflesso di un ordine cosmico. Ma oggi mancano entrambi, quindi dobbiamo accontentarci delle reciproche ipocrisie di chi non sa essere fedele neanche a se stesso, figuriamoci agli altri, per tacere degli Dèi.
Adriano Scianca