Roma, 16 apr – Quando si parla di fisco il dibattito odierno è tutto imperniato sulla flat tax, fortemente voluta dal vicepremier Matteo Salvini. Se però osserviamo la mappa della tassazione Irpef corrisposta dagli italiani lo scorso anno, emerge il peso delle imposte regionali e comunali che si sommano a quelle statali. Inoltre, c’è il rischio il peso delle addizionali locali possa crescere. Si profila una stangata da 130 euro medi l’anno pro capite. Vediamo perché.
Il possibile rincaro delle aliquote locali
La manovra di Bilancio per il 2019 ha concesso agli amministratori locali la possibilità di muovere al rialzo la leva fiscale per tassa sui rifiuti, tassa sulla casa e addizionale locale sull’imposta sulle persone fisiche. Dai dati elaborati dalla Uil con lo sblocco delle aliquote, la pressione fiscale potrebbe aumentare in 6.545 Comuni, tra cui 71 città capoluogo. Se i sindaci avessero mano libera sul fisco potrebbero esserci rincari di 36 euro (valore medio), portando l’esborso da 224 euro a 260 euro. Inutile dire che i Comuni si preparano a far cassa anche con l’Imu, portando il gettito da 814 a 848 euro.
Ovviamente neanche le Regioni, dove i margini di aumento sono più ampi, staranno a guardare. A rischiare sono quelle realtà dove il deficit sanitario è più alto. In questo caso gli italiani potrebbero trovarsi in tasca una sessantina di euro in meno. Ad esempio un campano si ritroverebbe a pagare di più per gli stessi servizi fatiscenti.
L’arbitrio degli amministratori locali
Non serve un esperto di diritto tributario per comprendere che questo sistema non è equo. Il motivo è molto semplice: la variabile delle imposte locali fa la differenza e determina disparità di pressione fiscale in proporzione al reddito. Ovviamente di fronte a questa situazione lo scaricabarile è d’obbligo. I sindaci giustificano l’imposizione di balzelli vari con il taglio dei finanziamenti da parte del governo. L’esecutivo accusa i Comuni di non sapere gestire il denaro dei cittadini. Alla fine dei giochi il cerino rimane in mano al contribuente. Facciamo qualche esempio.
A Roma la dichiarazione dei redditi in media si aggira intorno ai 25.500 euro, il che significa che un romano guadagna ben 6.500 euro meno di un milanese. Nonostante questo, però, percentualmente l’Irpef è inferiore di un solo punto (33,5%) che si traduce in una spesa di 8.728 euro a testa. I cittadini della Capitale, dunque, sono vessati da imposte locali record che arrivano a superare i 610 euro pro capite. Nella Città Eterna la situazione si è ormai incancrenita. Tutte le volte che cambia l’inquilino del Campidoglio, si assiste alla solita sceneggiata: le tasse sono così alte perché il predecessore ha indebitato il Comune. Ovviamente, lo stesso schema si può applicare anche in realtà più piccole.
Non basta tagliare le tasse
Ad Andria, ad esempio, dove il reddito pro capite è tra i più bassi d’Italia, la pressione è comunque del 25,1% con un Irpef di circa 3.396 euro. Questo significa che un euro su quattro guadagnato finisce nelle casse dell’erario. Certo esistono gli enti locali più virtuosi, ma sono una minoranza. Gli italiani più tartassati dovrebbero scegliere meglio i loro rappresentanti. Ma basterà una croce su una scheda ad invertire la rotta? Difficile crederlo. Ed è per questo che sarebbe utile chiedersi se il principio della sussidiarietà applicato al fisco sia sostenibile. L’autonomia dei degli enti locali in questo senso si sta rivelando controproducente. Serve a poco tagliare le tasse a Roma se poi è a bastonare i contribuenti ci pensa il sindaco.
Salvatore Recupero