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I Taccuini Mussoliniani e la cultura rivoluzionaria

by La Redazione
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Roma, 21 mag – “Esiste come nuovo modo di esprimersi dell’anima del popolo. Esiste come rifiuto di quel che è stato e come speranza per quel che sarà”. Checché ne dicesse Bobbio, una cultura fascista è esistita eccome. Ed era una cultura rivoluzionaria, come traspare da numerosi passaggi dei Taccuini Mussoliniani. Sorta non per voler riformare, ma per trasformare, “non nasce dai campioni del conformismo”, ma proviene dalle nuove condizioni di vita dell’uomo. La cultura della rivoluzione, quindi, non accetta di sottostare a quelle che l’hanno preceduta, semmai se ne serve per quel che possono dare di valido, poco o tanto che sia.

La cultura rivoluzionaria nei Taccuini Mussoliniani

Continuando nel suo discorso, Mussolini afferma che non vuole fare della cultura un mezzo di persuasione, perché la rivoluzione non reclama consensi ma è il consenso che crea la rivoluzione. II “mondo della rivoluzione” non è quello in cui stanno le radici della cultura borghese, dove il profitto sommerge il salario, e nemmeno quello bolscevico, fatto da odio e complessi di rancore verso quel che l’ha preceduto, aggiungendo come sia inutile la lotta di classe con la frase “sul sangue nulla si crea, tutto si distrugge”. La cultura cui fa riferimento Mussolini è il mondo dello spirito dei contadini, degli operai, dei produttori di cui la storia è composta. Mussolini sa bene di aver dilaniato quella tradizione cara allo storicismo, definendolo “peste culturale del nostro paese”, ma sa anche che era l’unico modo per abbattere quelle “scuole ammuffite”, aprendo così la strada per le nuove opere che verranno. Vede nei giovani una forza dirompente, vede in loro gli unici che possono sborghesizzare la cultura italiana, cioè togliere il monopolio del potere letterario ai soliti noti, visti come feudatari del’ editoria. Ciò avrebbe portato rinnovamento tra i letterati, rimettendo in primo piano i valori spirituali di cui la cultura è da sempre custode: “La storia è una storia di rivoluzioni che abbattono altrettante forme di conservatorismo”.

Una cultura per superare la lotta di classe

Nei Taccuini, Mussolini spiega uno dei motivi che l’hanno portato ad abbandonare il socialismo: il superamento della lotta di classe. Sostiene, infatti, che non si riesce a creare una nazione basandola sulla lotta di classe, ma che bisogna mettere sullo stesso piano il proletariato e la borghesia, unendoli per un unico scopo: il bene nazionale. Le sue parole sono chiare: “Quando la rivoluzione ha preso il potere, la lotta di classe perde ogni senso, ogni ragion d’essere” e chi tenta di riportarla la trasforma in guerra allo Stato e quindi contro il fascismo. “La civiltà del capitale” cessa di dominare proprio quando viene preso il potere dalla “cultura rivoluzionaria”, diventando così collaboratrice di una società più equa. L’esigenza di rinnovamento di un popolo non è insomma monopolio di alcun ceto, perché si manifesta quando tutto si fa difforme da un presente intento a riprodurre senza soluzioni gli errori del passato. Da ciò la cultura del fascismo può produrre storia, solo da questo discende il senso di giustizia sociale, il sistema penale dove è impresso il vigore della giusta legge e lo Stato che viene chiamato da noi per decidere ciò che per la società sia bene.

La profezia

Questa parte si conclude con una profezia fatta da Mussolini, dicendo che un giorno le sue idee usciranno dalla nazione per dichiararsi pur nella “modestia dei contenuti” patrimonio dell’uomo libero da “strettoie politiche e da vincoli provinciali”, in quel momento sarà capita la sua rivoluzione, che vuole produrre cultura secondo le ragioni del tempo e del mondo spirituale. La cronaca non avrà più diritto di esistere perché sarà sepolta dall’inutilità che ne è stata la diretta matrice. Afferma che quello che hanno fatto era necessario e che, se non avessero agito da rivoluzionari, sarebbero vissuti come schiavi. Inoltre preconizza che, dopo il 2000, ancora si parlerà della sua rivoluzione, di uomini di cultura che gli furono maestri o che divennero discepoli, di coloro che furono fondatori di una religione, quella della socialità, diversa e più totale di quella della libertà. Scrive che hanno violato la legge del libero arbitrio, e che questo era il solo mezzo per dotare il paese di un’esperienza di controriforma: non è la troppa libertà che guasta il popolo e devasta la storia, ma il farlo destinatario di una qualsiasi ipotesi di libertà, dietro alla quale stanno la decadenza e la dissennatezza. E anche se alcuni avversari forse anelavano la stessa cosa, la volevano per vie traverse che sempre più separano dalla logica e fanno il vuoto intorno alla speranza di cui si vive.

Francesco Maria Attolini

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