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Il paradosso di un'epoca che si commuove solo per gli stranieri

by La Redazione
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accoglienza immigrati stranieriRoma, 11 set – La parola greca che indica il “prossimo” è plesios, alla lettera “l’altro che ci sta vicino”, colui col quale è quindi possibile dar vita a una etica della prossimità, proprio perché è un altro che vedo, che sento, che posso toccare, col quale posso concretamente interagire appunto da vicino. Ecco perché, ancora nel XX secolo, Ernst Jünger ne L’Operaio poteva scrivere: “si ha un rapporto concreto con l’uomo se la morte del nostro amico Tizio o del nostro nemico Caio ci colpisce più profondamente della notizia che diecimila uomini sono annegati in seguito a un’inondazione del Fiume Giallo”. L’esempio cinese scelto da Jünger non è casuale. La Cina era infatti sin dal Settecento un modello quasi paradigmatico di distanza spaziale e quindi morale, come dimostra l’esperimento morale di Adam Smith sull’europeo compassionevole e una catastrofe avvenuta in Cina. E infatti proprio un illuminista come D’Holbach, che si batteva per il trionfo di una empatia universale, insisteva sull’esempio cinese, dichiarando che “l’umanità è un nodo che unisce il cittadino di Parigi a quello di Pechino”.
Ma, al di là delle critiche mosse già all’epoca a tale pretesa universalista[1], resta il fatto che D’Holbach era almeno coerente nel suo tentativo di, per così dire, allargare progressivamente, dal vicino al lontano, il cerchio della solidarietà e dell’empatia tra umani. Oggi invece ci si trova di fronte a un paradosso dalle possibili tragiche conseguenze per l’intera civiltà europea. In breve, gli stessi che per decenni hanno osteggiato e attaccato ogni senso di appartenenza comunitaria, ogni idea di etica condivisa tra prossimi, ogni solidarietà tra connazionali, oggi si scoprono solidali con dei perfetti sconosciuti provenienti da tutti gli angoli del globo. La solidarietà negata ai propri vicini viene invece assicurata agli stranieri lontani. Chi era indisponibile ad aiutare un connazionale in difficoltà economiche o con disagi di qualsiasi tipo, oggi è invece pronto addirittura ad ospitare nelle proprie case degli estranei che nemmeno parlano la sua lingua. Non c’è, quindi, un progressivo passaggio da una empatia per il prossimo a una per il distante, ma un vero e proprio salto logico da parte di chi, programmaticamente, negava, fino a oggi, l’esistenza stessa di un’etica della prossimità in nome di valori e principi esclusivamente individualistici.
Alle spalle di questo atteggiamento c’è la lunga storia delle ideologie cosmopolitiche e dei ‘diritti umani’ ma, ecco il punto decisivo e altrettanto paradossale, adesso declinate (soprattutto grazie a un capillare, onnipervasivo battage propagandistico) in una forma davvero peculiare, perché non scettico-relativistica, di emotivismo etico[2], a sua volta impiantato su quella più generale ‘cultura delle emozioni’ (così ben denunciata da Frank Furedi), il cui particolare meccanismo di autoriproduzione rimanda, in buona misura, a mio avviso, a quella dinamica mimetica individuata anni fa, seppure in un diverso contesto, da René Girard.
Giovanni Damiano
[1] Ricordo soltanto il Rousseau dell’Emilio: “un filosofo ama i tartari per essere dispensato dall’amare i propri vicini”, e il Voltaire del “Lisbona è distrutta e a Parigi si danza”.
[2] In estrema sintesi, per “emotivismo etico” s’intende, al contrario del cosiddetto “cognitivismo etico”, una teoria in base alla quale i valori morali sono soprattutto un prodotto della sfera emotiva dell’uomo. Il punto è che solitamente tale teoria viene accusata di condurre a esiti relativistici, laddove io ritengo che nell’oggi veicoli, al contrario, finalità universalistiche.

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Gianni 11 Settembre 2015 - 8:55

Sempre lucido e chirurgico Giovanni Damiano, un pensatore che meriterebbe spazio mediatico al posto dei quattro cosidetti intellettuali a busta paga del potente di turno che lo occupano attualmente.
Un appunto di carattere terminologico, ma importantissimo: stranieri. Sì, questo il termine esatto da usare. Non immigrati, migranti, rifugiati, profughi e tutto il resto della neolingua orwelliana per indorare la pillola avvellenata che stanno cercando di far mandar giù agli europei. Stranieri, sono e rimangono gli invasori che negli ultimi decenni stanno arrivando a frotte sul nostro continente. Iniziamo noi in primis a chiamare le cose con il proprio nome.

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