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“Il passeggero” di McCharty: viaggio al termine del nulla

by Sergio Filacchioni
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Cormac McCharty

Roma, 20 dic – Con il suo penultimo libro Cormac McCharty sembra volerci sfidare: per portarci proprio lì dove il nulla finisce. Quel che si pensa non importa: c’è un mondo inaccessibile in cui ciascuno di noi si spinge, ogni notte, quando il mondo biologico lascia il posto al mormorio notturno. Un mondo che è nella nostra testa e che sfugge a qualsiasi tentativo di quantificarlo perché certe cose proprio no, un numero non ce l’hanno. Un mondo da cui affiorano i desideri, che nascono dalle profondità più remote del nostro animo e che sono “più nascosti di ogni altra intenzione, siano essi buoni o cattivi”. Nascosti perfino a noi stessi, a cui non resta che seguirli finché la manciata dei nostri anni non si esaurirà.

McCharty ci sfida

“Forse tutti quelli che dicevano che i fantasmi non esistevano”, ci dice Michael Ende nel classico “La Storia Infinita”, “avevano soltanto paura di ammetterlo”. Cormac McCarthy invece lì fissa questi fantasmi e lì riporta su carta perché certe cose, sempre Ende ci dice che non si possono capire con la riflessione ma bisogna viverle: “Le passioni umane sono una cosa molto misteriosa e per i bambini le cose non stanno diversamente che per i grandi. Coloro che ne vengono colpiti non le sanno spiegare, e coloro che non hanno mai provato nulla di simile non le possono comprendere. Ci sono persone che mettono in gioco la loro esistenza per raggiungere la vetta di una montagna. A nessuno, neppure a sé stessi, potrebbero realmente spiegare perché lo fanno. Altri si rovinano per conquistare il cuore di una persona che non ne vuole sapere di loro. E altri ancora vanno in rovina perché non sanno resistere ai piaceri della gola, o a quelli della bottiglia. Alcuni buttano tutti i loro beni nel gioco, oppure sacrificano ogni cosa per un’idea fissa, che mai potrà diventare realtà. Altri credono di poter essere felici soltanto in un luogo diverso da quello dove si trovano e così passano la vita girando il mondo. E altri ancora non trovano pace fino a quando non hanno ottenuto il potere. Insomma, ci sono tante e diverse passioni, quante e diverse sono le persone”. Per Bastiano la risposta è nei libri, per Bobby Western invece – il protagonista del Passeggero – la risposta è nelle profondità dell’acqua, dove l’oscura anima degli oceani è l’unica forza in grado di cauterizzare la sua ferita e correggere la sua anomalia spazio-temporale.

McCharty scioglie il suo logos

Bobby è un palombaro, si immerge con la sua tuta nelle acque del Golfo del Messico e non sa ben dire perché: fisico brillante, giovane promessa delle corse automobilistiche, dandy smaliziato ed affascinante. Potrebbe fare altro nella vita: avere tutto. Ma purtroppo per lui ciò che vuole non è più su questa terra, ma solo nella sua testa, nel passato. In questo penultimo libro Cormac McCarthy ci pone di nuovo di fronte ad un’opera di frontiera. Stavolta però non si corre sui cavalli selvaggi del west e nemmeno sulle carreggiate vuote di qualche superstrada abbandonata dopo l’apocalisse. La frontiera corre tra realtà ed illusione, fisica e fede, pensieri ed azioni. I personaggi di questo viaggio non sono più gli uomini dal grilletto facile e nemmeno gli animali allo stato brado, ma uomini e donne divisi nel corpo e nell’anima: veterani, ubriaconi, truffatori… trans, perché una vita può essere ben spesa ma anche “ben sprecata”. McCarthy mette in scena un ultimo freak show prima del nulla perché alla fine tutto decade, tutto muore, tutto si sgretola. Tutto tranne la bellezza, che si può cercare, ancora e ancora. Fino all’ultima pagina. Nelle opere di McCarthy il tema portante è sempre stato quello della forma: il rituale che si cela dietro ogni gesto, lo spazio sacro che si svela dietro ogni spazio – perfino quello più malfamato – il canto antico dietro ogni sillaba apparentemente insignificante, la bellezza che cresce all’ombra del pericolo. Le forme originarie che riaffiorano quando la crosta terrestre si erode e quando la pelle viene messa a rischio: ciò che sta sotto, in profondità, relegato ad un angolo, negato dal raziocinio e rimosso dalla società del benessere che è stata giustamente definita la “società senza dolore” dal filosofo coreano-tedesco Byung Chul-Han. Figuriamoci la bellezza, che secondo il solitario di Santa Fe “ha il potere di suscitare un dolore inaccessibile ad altre tragedie” e aggiunge “La perdita di una grande bellezza può mettere in ginocchio un’intera nazione. Nient’altro può farlo”. Bobby Western, un nome che sembra voler parlare a nome dell’Occidente tutto (west, appunto) è alla ricerca di questa bellezza perduta che un tempo sa di avere conosciuto, ma che fatica a ritrovare ora che se n’è andata per sempre, perché per lui questa era sua sorella Alicia, suicida. La narrazione che segue le vicende della sorella non sono le solite pagine di McCarthy, brevi e lapidarie, ma sono quasi ermetiche e la prosa segue il flusso di pensieri di una schizofrenica che ha delle allucinazioni visive molto gravi: in questo libro lo scrittore scioglie definitivamente il suo logos per affidarsi ad una forma di espressione “oracolare” – si potrebbe dire eraclitea? Le frasi quindi si allungano e si sciolgono dal senso per ricordare quelle di Kerouac nel “Dottor Sax”, nel quale il lettore fa anche una notevole fatica a seguirne il non-sense di ragionamenti e monologhi affidati al circo di allucinazioni con cui Alicia coltiva un rapporto d’amore ed odio ma che alla fine la porteranno al tragico momento. Alicia riaffiora nella narrazione come un fiume carsico e spezza il tempo lineare di Bobby, impegnato in una grande fuga (o ricerca?) braccato da autorità e fantasmi che fra di loro sembrano confondersi in un’unica spettrale messa in scena.

Un libro senza risposte

Chi si aspetta di trovare risposte in questo libro rimarrà deluso. Il Passeggero non è un libro di rivelazioni e nemmeno di sentenze: non ci dice come andrà a finire. I grandi temi che vengono messi in mezzo, dalla fisica quantistica alla guerra, dall’amore incestuoso alla schizofrenia, non sono altro che possibilità che si offrono per una lettura di questo grande libro che è la vita. Prospettive più che soluzioni. Punti di vista diversi. Il Passeggero ci offre perfino la possibilità di rivalutare la pazzia, il disturbo mentale e l’ossessione non come semplici tare genetiche ma – come dicevamo prima – impronte di un tocco divino che ama celarsi. Ciò che si intuisce dalla lettura di questo libro è che la barriera che separa realtà e follia è molto più sottile di quanto non ci sembri: la membrana si assottiglia, fino a scomparire, di solito nei pressi dell’acqua. Un elemento che tradizionalmente personifica il tempo, il passaggio, il destino e che si ritrova sempre in tutto il tomo, dall’inizio alla fine. È l’elemento che riunisce le personalità frammentate di Bobby – il fisico e l’avventuriero; è l’elemento che riunisce i due fratelli separati dalla morte nei ricordi di lui; è lo specchio del suo temperamento; è la porta attraverso il quale l’Odisseo di McCarthy raggiunge in fine una sorta di pace interiore, quando ormai assomiglia più ad un profeta presocratico che ad uno scienziato statunitense, quando il suo viaggio iniziato tra i fiumi della Louisiana approda sulle sponde dell’antica culla Mediterranea. Una pace che non nasce dall’astensione dal dolore (non sarebbe Maccartiano!) ma nell’immersione in esso: nel riconoscere come parte del cosmo anche ciò che ferisce, distrugge, mortifica e non solo ciò che piace. L’acqua in fondo è così: dona vita a questo pianeta, ma può anche distruggere e spazzare via ogni cosa. Il terribile è in essa come lo è nelle nostre vite. E non ingannatevi: anche la vista del “bello” non suscita alcun sentimento di piacere, come siamo stati abituati a credere dalla cultura consumista, bensì uno scuotimento. Qualcosa che ci strappa dal sonno e dalla ragione. Qualcosa a cui aggrapparsi e che ci rende vivi: il che, come ci insegna il nostro McCarthy, non vuol dire conservarsi ma lottare. Fino in fondo. Fino all’ultimo secondo della nostra vita.

Un cuore di luce

L’unica presa di coscienza “immediata” a cui ci porta la lettura del Passeggero – quindi – è la necessità ed anche la sfida di dare un nome al dolore, riconoscerlo ed infine sublimarlo in una bellezza senza tempo e senza spazio che possa dare un senso a ciò che propriamente un senso non ce l’ha. Bisogna riconoscerlo, avere un rapporto con esso, anche se può sembrare soltanto un fantasma, anche se ci provoca orrore e sulle prime ci spinge alla fuga. “Bisogna essere amici dell’orrore”, dice il Colonnello Kurtz alla fine di Apocalypse Now mentre il delirio si consuma nel cuore di tenebra del Vietnam. Pena l’autodistruzione: il destino di Alicia è esemplificativo della necessità vitale di saper sciogliere – come Alessandro Magno – i vari nodi gordiani che si formano nel nostro cervello, nelle nostre idee e nella nostra vita. Il labirinto deve essere attraversato e alla fine, col passare di “strani eoni anche la morte può morire”, come ci diceva un altro “maledetto” di Providence, H.P. Lovecraft.  Deve esserci qualcosa nell’acqua, lì nel Rhode Island che fa crescere scrittori-profeti dalle penne affilate come lame. In ogni caso, l’infanta imperatrice che abita la nostra fantasia ha bisogno di avere un nome. Un nome che Bastiano trova alla fine della grande cerca, sfidando l’implacabile nulla che può sempre tornare a farsi avanti, in ogni momento, non importa quanto può aspettare: alla fine ritornerà e ritorneranno ancora gli eroi, e così per sempre. È il nome che Bobby Western mormora su una spiaggia senza nome e fuori dal tempo, come l’”ultimo pagano sulla terra”, affidandolo al canto di una lingua sconosciuta che McCarthy non ci vuole dire. Di proposito. Perché in fin dei conti sei tu a doverlo trovare. È nascosto nelle pieghe del continuum. E quando sarai in grado di dirlo parlerai una lingua come non si è mai sentita su questo mondo.

Sergio Filacchioni

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