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Il Patto di Varsavia fu uno scherzo del destino: era il 14 maggio 1955

by Stelio Fergola
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Patto di Varsavia

Roma, 14 mag – Un impero di fatto, quello sovietico, sebbene non nelle proposizioni ideologiche: ufficialmente, il socialismo dal marchio Urss “aiutava” i Paesi che aderivano al suo tipo di società e di economia. In realtà, soprattutto nell’Europa dell’Est, non fu così (discorso diverso ma più complesso si potrebbe porre per le numerose realtà del cosiddetto terzo mondo a cui Mosca diede il suo appoggio, sia africane che centro-sudamericane). Un impero la cui caduta fu dovuta alle sue contraddizioni interne e genetiche (con ovvie e scontate “marce” del concorrente americano volte a favorirla, ma questa è una banalità). Quell’impero ebbe un atto fondativo ufficiale, sebbene la sua sostanza fosse già saldamente concreta verso la fine degli anni Quaranta. Si tratta di quel Patto di Varsavia firmato il 14 maggio del 1955 con cui Mosca legò a sé i destini di altre sette Paesi del cosidetto blocco orientale: un gruppo che nei successivi 34 sarà inevitabilmente contrapposto a quello americano e a quell’Alleanza Atlantica fondata sei anni prima.

Patto di Varsavia, uno “strano scherzo del destino”

I regimi dell’Europa dell’Est nacquero successivamente alla guerra e, per ironia della sorte, alle dipendenze dell’Urss guidata da Stalin. Perché “ironia della sorte”? Per un motivo semplicissimo. La “Guida”, come si faceva chiamare, aveva improntato la sua politica in un senso ben poco votato ala proiezione esterna. Stalin, alla morte di Lenin il 21 gennaio 1924, si era fatto profeta del principio del “socialismo in un solo Paese”, differentemente dall’impostazione di Lev Trockij, sostenitore della necessità di “esportare la rivoluzione”, in particolare nell’Est Europa, seguendo l’esempio del tentativo – durato lo spazio di pochi mesi – di Bela Kun in Ungheria all’indomani della Grande Guerra.

È ben noto come la lotta alla successione dei due personaggi portò il primo a diventare leader indiscusso dell’Urss. Ciò che è però rilevante notare è come la sua azione di governo abbia rappresentato in pieno le sue affermazioni iniziali: l’Unione Sovietica di Stalin lavorò effettivamente sul piano interno e pochissimo, se non nulla, al di fuori. Prova ne sia che alla fine degli anni Trenta ad Ovest nessuno sapesse realmente cosa fosse il regime sovietico, e la sua credibilità a livello internazionale fosse pressoché nulla. Gli altri Paesi non invitarono neanche Stalin o il ministro degli Esteri Vjačeslav Molotov in occasione di una conferenza delicatissima per decidere i destini dell’Europa, quella di Monaco del 29 settembre 1938, tramite la quale la guerra venne rimandata sostanzialmnte di un anno. Una riunione in cui l’Italia recitò la parte più prestigiosa, riuscendo a placare gli animi ribollenti di Germania (soprattutto) ma anche di Francia e Gran Bretagna.

Dello strapotere militare sovietico, parimenti, nessuno era a conoscenza. Tanto è che uno dei calcoli sbagliati di Adolf Hitler quando decise di rompere nel giugno del 1941 il patto di non aggressione con il Cremlino nell‘Operazione Barbarossa fu proprio quello di non attendersi minimamente una resistenza militare tanto imponente (una sorpresa che il Fuhrer confessò a Carle Gustav Mannerheim, capo delle forze di difesa finlandesi, esattamente un anno dopo). Tutto questo per dire che effettivamente la politica di Stalin fu coerente con quanto aveva preposto: l’Unione Sovietica era davvero una potenza “isolazionista” di cui nessuno sapeva nulla o quasi fino allo scoppio della guerra. Quella stessa potenza isolazionista si ritrovò, per l’esito della guerra stessa e per ironia della sorte (appunto), a diventare “trotskista” e ad avere una proiezione mondiale di tipo imperiale, dopo gli accordi di Jalta che resero la questione formale. E che con il Patto di Varsavia poco dopo la morte di Stalin, divenne ufficiale.

L’alleanza e i dissidenti

Il nuovo leader sovietico era Nikita Krusciov. Che però proseguiva in un’azione naturalmente fisiologica: formalizzare e blindare il dominio di Mosca ad Est. Un’operazione già avviata otto anni prima con la nascita del Cominform, l’organizzazione dei partiti comunisti “fratelli” nata nel 1947 ma priva di una vera struttura. Certamente, il Patto di Varsavia su soprattutto una risposta alla Nato già esistente da sei anni che aveva radunato intorno a Washington altti 11 Paesi occidentali. Il Patto non comprese la Jugoslavia di Josip Tito, che aveva rotto con l’Urss già alla fine degli anni Quaranta. Questo per ragioni geostrategiche: il leader jugoslavo puntava forte sulla posizione geografica del suo Stato, non a caso divenuto uno degli esponenti dei cosiddetti “non allineati” negli schieramenti tra i due blocchi. Il Patto di Varsavia incluse Germania Est, la Polonia, l’Ungheria, la Bulgaria, la Romania, la Cecoslovacchia e la piccolissima Albania. Del mondo comunista mondiale, oltre a Tito, non vi faceva parte neanche il potenziale gigante cinese guidato da Mao Tse Tung, il quale, però, nei decenni successivi avrebbe sempre meditato di contendere a Mosca il predominio del comunismo mondiale. Nel complesso era un’alleanza equiparabile al suo “specchio” occidentale, pur comprendendo meno Paesi (va ricordato che anche nella Nato esistevano realtà estremamente trascurabili, come Lussemburgo e l’Islanda). Con quella firma, la guerra fredda, già in corso da qualche anno, ebbe un atto di ratifica ufficiale.

Stelio Fergola

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