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Inchiesta la nuova “Guerra Fredda”/1. La Nato in Europa: cosa è cambiato?

by Paolo Mauri
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Roma, 23 giu – La dialettica tra NatoStati Uniti e Russia sembra aver ripreso i toni di quella della Guerra Fredda quando le due superpotenze si fronteggiavano su scala globale non solo attraverso guerre per procura ma anche con veri e propri “messaggi” affidati a missili, navi da guerra e cacciabombardieri che venivano usati come “ambasciatori” della propria volontà di potenza. La Siria oggi sembrerebbe il banco di prova delle diplomazie di Mosca e Washington ma la crisi Ucraina sembra aver aperto il vaso di Pandora di un fronte, quello europeo, che pareva dimenticato. Cercare di capire chi abbia innescato realmente questo balzo indietro nel tempo è un gioco che può lasciare spazio ad argomentazioni pretestuose a seconda del proprio “tifo” per questa o quella potenza straniera dimenticando, spesso, che non si dovrebbe fare il tifo per una squadra comunque avversaria quando in ballo ci sono gli interessi della propria nazione.

Se proprio vogliamo indicare una data che segni l’inizio di quello che oggi è diventato un problema serio per l’Europa, o almeno per una parte di essa come vedremo, dovremmo considerare il 13 dicembre del 2001, quando l’allora Presidente degli Stati Uniti G.W. Bush diede un preavviso di 6 mesi alla Russia sulla volontà di Washington di ritirarsi dal trattato ABM a seguito della nuova minaccia missilistica iraniana e nordcoreana. A questa nuova “iniziativa di difesa strategica”, perdonatemi l’uso magari improprio di un termine ben noto a chi si occupa di storia e geopolitica, fu invitata a partecipare la Russia stessa peraltro, che effettivamente iniziò la cooperazione allo studio del sistema ALTBMD nel 2002 salvo poi distaccarsene nel momento in cui, a gennaio del 2007, gli Stati Uniti decisero unilateralmente di portare avanti il proprio piano di difesa ABM al di fuori anche dell’ambito Nato; decisione che portò la Russia a febbraio dello stesso anno a denunciare il trattato INF (Intermediate-range Nuclear Forces), ed il CFE sugli armamenti convenzionali a novembre. Nonostante questo grave cambio di rotta l’atteggiamento americano riguardo all’Europa restò immutato: il teatro europeo, oggi come allora, continuava ad essere lo scenario di impiego della forza meno probabile per gli Stati Uniti grazie alla sua intrinseca stabilità. L’Europa de facto è considerata niente di più di una base privilegiata per gli interessi americani in Africa e Medio Oriente, difatti la presenza militare si fa sentire maggiormente sul “fronte sud” dei Paesi dell’Alleanza: Italia, Spagna, Turchia, Grecia con due eccezioni rappresentate da Germania e Regno Unito. L’Europa quindi rappresenta, nonostante la crisi Ucraina, un fronte del tutto secondario e a riprova di questo atteggiamento strategico c’è la progressiva drastica diminuzione degli effettivi statunitensi: negli anni ’90 si era già passati dai 213mila uomini della Guerra Fredda a 122mila, ulteriormente diminuiti sino ai 75mila del 2014 e 65mila del 2015; oggi in Europa ci sono circa 62mila uomini di cui 52.500 assegnati ad EUCOM e 9500 ad AFRICOM e TRANSCOM nonostante quella che sembra essere una situazione da “Cortina di Ferro” a causa della crisi in Donbass e dell’annessione russa della Crimea, fattore che ha provocato, su richiesta dei Paesi dell’Europa dell’Est, un ridispiegamento di queste forze da Regno Unito, Germania e Italia verso Bulgaria, Estonia, Lituania, Ungheria e soprattutto Polonia. Nel contempo però gli Stati Uniti, e non solo per voce di Trump, si aspettano che gli Stati europei dell’Alleanza Atlantica si facciano maggiormente carico della propria difesa, da qui l’invito perentorio ad aumentare le spese per le FFAA. In Europa attualmente vi sono solamente circa altri 60-100mila uomini disponibili di cui la metà costituita da unità britanniche e francesi ed una parte di questi sono già impiegati in altri teatri di crisi come l’Afghanistan o l’Iraq.

Con queste premesse, e soprattutto per tranquillizzare quei Paesi dell’Alleanza più orientali che storicamente hanno avuto a che fare con l’espansionismo Sovietico (e Russo), nasce l’European Reassurance Initiative (ERI), un programma dell’amministrazione Obama che si articola su 5 direttive: presenza militare, addestramento, miglioramento delle infrastrutture, pre-posizionamento tattico e incremento della capacità militare degli alleati. ERI gode di finanziamenti per circa 3,4 miliardi di dollari per l’anno in corso, a fronte di un inizio, nel 2015, in cui era stato stanziato un miliardo mentre per il 2016 la cifra ammontava a 789milioni. Per fare un paragone, se questi soldi sembrano tanti, bisogna considerare che rappresentano solo il 5,7% del budget dell’OCO (Overseas Contigency Operations), dove la maggior fetta è rappresentata dai fondi destinati all’Asia con il 71%, nulla di nuovo per chi ci ha seguito in questi anni. Questa iniziativa vedrà aumentare di 5100 unità le forze americane presenti in Europa quest’anno, tra permanenti, in rotazione ed in esercitazione portando il totale a 67mila, ancora quindi ben lontani dalle cifre pre 2014. La maggior parte di questi fondi andranno all’US Army che dovrà garantire un ulteriore BCT (Brigade Combat Team) ed una CAB (Combat Aviation Brigade) sul territorio europeo in aggiunta a quelle già esistenti.

Ma di quante e quali forze stiamo parlando? Il primo BCT previsto dalla ERI è stato il 3° Armored Brigade Combat Team che ha cominciato ad arrivare a gennaio del 2017 nel porto di Bremerhaven. Questo è composto da circa 250 veicoli corazzati (90 MBT M-1A2 Abrams, 130 IFV M-2 Bradley e 18 semoventi M-109A6) più circa 1750 veicoli ruotati. Al termine dei 9 mesi previsti di turno operativo questi veicoli verranno lasciati in Europa in appositi depositi (perlopiù siti tra Belgio, Olanda e Germania), ed il BCT subentrante dovrà arrivare a sua volta con i propri mezzi a seguito in modo da avere 3 BCT attivi: il 2° Stryker di Vilseck (Germania), la 173° Airborne Brigade e una terza brigata corazzata disseminate lungo il confine orientale: dall’Estonia alla Bulgaria. A queste si aggiungono i mezzi ed i materiali per l’attivazione rapida di un quarto Armored BCT. La Polonia sarà il Paese che vedrà ospitare buona parte di queste forze: la maggior parte della 3° Brigade risiederà nelle basi polacche ed il quartier generale della brigata resterà appunto in Polonia anche qualora l’unità dovesse essere spostata verso altri Paesi limitrofi. E poi ancora il 1° Battaglione del 68° Armor Regiment avrà la propria sede tra la Lettonia, Estonia e Lituania mentre in Bulgaria e Romania sarà dislocato il 1° Battaglione dell’8° Infantry Regiment; il 1° del 66° invece resterà di retroguardia in Germania presso la base di Grafenwöhr. Per i Marines la situazione invece cambia poco: la loro presenza resterà immutata in Bulgaria e Romania mentre sarà rafforzata in Norvegia, le cui basi sotterranee verranno riempite entro breve al 100% in modo da fornire mezzi e materiale per una intera Marine Expeditionary Brigade per 30 giorni (al momento sono al 70% della capienza, erano al 30 nel 2014). Le forze, sommate, ammontano a una compagnia di 160 uomini e 4 M-1A1 Abrams con 6 LAV in Bulgaria, 500 uomini (fanteria leggera) in Romania e 330 in Norvegia dotati di un plotone di carri Abrams e alcuni AAV-7. Per quanto concerne l’aeronautica la spesa principale è costituita dal mantenimento del 493° Fighter Squadron a Lakenheath (Uk) dotato di F-15C e da turni operativi di F-22 ed F-35 in “visita” ad alcune basi dell’Europa centro-orientale che verranno presto adattate per accogliere i nuovi caccia di quinta generazione in modo stabile. La US Navy non prevede importanti rischieramenti di sorta, con la Sesta Flotta che alternativamente si scambia un Carrier Group con la Quinta Flotta, e la spesa maggiore è rappresentata dall’adeguamento dell’aeroporto di Keflavik in Islanda per l’impiego dei nuovi pattugliatori marittimi P-8A di cui ci eravamo già occupati. Queste forze extra andranno ad affiancare la VJTF (Very High Readiness Joint Task Force) inquadrata nella NRF, dotata di 20mila uomini di cui abbiamo già avuto modo di parlare in occasione dell’assegnazione del suo comando all’Italia prevista per il 2018.

Paolo Mauri

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