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Italia 90, Andy Brehme e la fine della giovinezza

by admin
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Roma, 25 feb – Ci siamo già occupati qualche tempo fa di Italia ’90 e dei risvolti di quel Mondiale sulla società, ma la morte, avvenuta pochi giorni fa a causa di un attacco cardiaco, di Andreas Brehme ci obbliga a ritornare nuovamente a quell’ormai lontana estate.

Brehme, il mondiale vinto

Sì, perché fu il terzino sinistro tedesco dell’Inter a decidere la finale contro l’Argentina, calciando in maniera impeccabile il rigore dato con estrema generosità da parte del teatrale (e totalmente inadeguato) arbitro messicano Edgardo Codesal Méndez. Brehme, che era un destro naturale, giocava però con il sinistro e comprese che per segnare a quel demonio del portiere argentino Sergio Goycochea (che dagli undici metri ci aveva mandato a casa pochi giorni prima, dopo aver fatto lo stesso con l’ultima Jugoslavia mondiale della storia) avrebbe dovuto tirare un rigore perfetto e così calciò impeccabilmente di destro. Negli anni, a chi gli chiedeva perché avesse fatto questa scelta, Andy rispondeva semplicemente “perché no?”. E noi italiani gli siamo stati quasi tutti molto grati perché la nostra giovinezza era finita da pochissimo, precisamente il 3 luglio con la scriteriata uscita di Walter Zenga su Claudio Paul Caniggia, e non eravamo pronti al trauma di veder alzare la coppa a Maradona.

Per quelli come il sottoscritto (che all’epoca aveva quindici anni) quella competizione rappresentava l’epitome di un mondo più semplice e più bello: un mondo nel quale c’era il Milan olandese e l’Inter tedesca, che si sfidarono proprio a Milano, con i teutonici che si presero la rivincita dall’Europeo perso in casa propria due anni prima. E poi a quindici anni è vero che si hanno i primi turbamenti adolescenziali, ma è anche vero che tutto si ritiene possibile. Avevamo il campionato più bello del mondo, gli ultras più fighi d’Europa ed i nostri club dominavano nelle coppe, quindi chi poteva dubitare che avremmo vinto quel Mondiale? Da teenager ingenuo pensavo pure che avessimo costruito o ristrutturato stadi fighissimi, che avremmo riempito per le decine d’anni a venire. E poi a quell’età, nella quale non sei più bambino ma nemmeno sei divenuto adulto, ti entusiasmano le cose più disparate: ed ecco che avevo il mio bel videogioco ufficiale per l’Amiga 500, il gioco in scatola, le squadre del Subbuteo, le magliette avute in regalo con la raccolta punti “Vinci Campione” delle merendine Kinder, pronto ad esaltarmi per le giocate in campo, ma anche per le scorribande degli hooligans inglesi e degli ultras nostrani.

Certo, probabilmente mi accorsi che qualcosa non andava in Italia e nel mondo: gli stadi spesso erano tutto tranne che pieni (ah che meraviglia la triste abitudine di regalare biglietti a sponsor e lacchè vari, piuttosto che metterli in vendita per i veri tifosi) e l’Est Europa stava cambiando per sempre volto dopo la caduta del Muro di Berlino, tanto che a settembre la Germania Est disputò la sua ultima partita ufficiale, prima di confluire nell’Ovest. Ma avevamo trovato l’eroe più inaspettato possibile in Totò Schillaci, che veniva baciato da Aldo Biscardi (sembra assurdo, ma oggi quasi rimpiangiamo persino lui a livello giornalistico) dopo ogni partita in un apoteosi del trash nel suo Processo ai Mondiali, che ci credevamo veramente imbattibili, come squadra e come nazione. Ed invece Zenga va a vuoto e noi perdiamo in quell’istante (ok, siamo andati ai rigori, ma sinceramente nessuno ha mai pensato che avremmo potuto vincere). Perdiamo la partita, il Mondiale e perdiamo la nostra gioventù in quel preciso momento.

Un’epoca di potenza tramontata

Ma non ce ne accorgiamo, non subito. Perché alla fine l’Italia era un paese in crescita, c’era la Milano da bere ed un intoppo non ci avrebbe certo potuto fermare, vero? E poi, come vi ho detto, avevo quindici anni e gli anni ’90 mi avevano spalancato le porte: musica, sottoculture, la curva da vivere in maniera attiva… E poi in un battito di ciglia arrivi al 2000 e tutto il mondo è cambiato. Persino il calcio è cambiato: non è più lo sport popolare che abbiamo amato, bensì un prodotto sempre più pensato per la borghesia e le classi più abbienti. E qui apro una veloce parentesi sul libro best seller Febbre a 90° di Nick Hornby: ho adorato il libro per certi aspetti, ma il suo approccio liberal al mondo del calcio ha fatto sì che venisse sdoganato il concetto di uno sport non più come rappresentazione figurata di una guerra, bensì come di un passatempo sempre più simile a quello vissuto negli sport americani. Sarò della vecchia scuola, ma sono rimasto fedele a quello che dice sempre mio padre a mia madre: “Pensi che allo stadio ci si vada per divertirsi?”.

Eppure a distanza di quasi trentaquattro anni posso ancora voltarmi indietro, ripensare al goal di Caniggia e riconoscere che sì, allora è finita la nostra giovinezza. Ma siamo andati avanti, abbiamo iniziato una nuova fase e siamo ancora qui a cercare il senso della vita, che non sarà in una palla che rotola in rete, ma dannazione come alcune volte ci si avvicina.

Roberto Johnny Bresso

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