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La Ducati trionfa al Mugello. Perché gli italiani, se vogliono, non sono secondi a nessuno

by La Redazione
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Ducati Mugello italiani DoviziosoScarperia, 5 giu – Pochi giorni dopo la celebrazione dei 25 anni da campione di Francesco Totti, e ancora pochi giorni dopo la splendida doppietta della Ferrari sul circuito di Montecarlo, celebriamo la doppietta della Ducati al Gran Premio d’Italia del Mugello, al primo e terzo posto di Dovizioso (di Forlì) e di Petrucci (di Terni, Ducati della scuderia Pramac). “All Italian Boys”, direbbero gli americani. Impressionante la velocità di punta della Ducati sul rettilineo del Mugello: 341 km/h. Ma naturalmente è una vittoria di Team, di tecnologie, di progettazione, di componentistica, ma anche di tifo e di passione come nel Calcio e nella Formula 1, e si inquadra nella eterna “rinascenza” dell’Italia ai vertici del contesto internazionale dal quale spesso sembra essere esclusa. Ma è una rinascenza che viene da lontano dove si inseriscono molti fattori che è bene ricordare.

Negli anni ’70 il settore moticiclistico europeo vide l’arrivo dei giapponesi, in particolare della Honda che con i suoi nuovi e prestigiosi modelli della serie “Four” (4 cilindri di 750 e 500 cc) si apprestava a sbaragliare il mercato. L’industria motociclistica italiana fu “protetta” da leggi restrittive (impensabili oggi, proibito) ed ebbe il tempo di adeguarsi con nuovi modelli (Guzzi V7 Sport, Laverda 1000 3 Cilindri, Ducati 900 SS) tanto che già al Gran Premio di Imola del 1982 per moto derivate di serie la Ducati vinse con una memorabile doppietta di Paul Smart (USA) e Bruno Spaggiari (un collaudatore/corridore della Ducati) davanti alla blasonata concorrenza giapponese. Le gare per moto derivate dalla serie furono popolarissime negli anni ’80, con al centro il “Tourist Trophy” all’Isola di Man (in Gran Bretagna) su un circuito stradale lunghissimo (63 km) e pericolossissimo dove si impone un mito del motociclismo dell’epoca, Mike Hailwood, e da dove nasce la Ducati 900 M.H.R. (Mike Hailwood Replica) sogno dei ducatisti dell’epoca, fra cui il sottoscritto, prodotta coi colori nazionali. (immagine Ducati02)

Invece la prestigiosa industria motociclistica inglese (BSA, Norton, Triumph,) non fu protetta (era il tempo della Tatcher) e tutte chiusero i battenti. Oggi abbiamo la quarta industria motociclistica del mondo, siamo leader mondiali nella parti staccate after market, e i colossi giapponesi Honda e Yamaha progettano e realizzano parte della loro produzione in Italia: la Honda (il più grande stabilimento Honda fuori dal Giappone), e la Yamaha (il più grande stabilimento per la produzione di motori per moto d’Europa). E benché anche il pacchetto azionario della Ducati sia stato acquistato dal gruppo Volkswagen tutto è rimasto in Italia, progettazione, produzione e corse. Mentre abbiamo perso la Piaggio (la Vespa!) per le decisioni di un “imprenditore” italiano che ha trasferito la produzione a Pune, in India, per lucrare meglio sulle paghe indiane.

La morale di questa storia è racchiusa in un paio di considerazioni: noi come popolo siamo quelli di sempre, capaci di stare fra i primi, tecnici, maestranze, tecnologie, organizzazione… non hanno nulla da invidiare a nessuno. La “Politica” ha rinunciato alla sua funzione primaria: proteggere e valorizzare l’economia e il lavoro nazionali. Non si oppongono alle delocalizzazioni, vendono l’Ilva a un paperone indiano, si riparano dietro alle “regole” di Bruxelles e del “libero mercato” mentre si appassionano solo alle liti da cortile su governo e sottogoverno. L’“Imprenditoria” peggio che mai: finite le generazioni degli Agnelli, Innocenti, Olivetti, Mattei, etc, i figli e nipoti degeneri si vendono tutto il vendibile per costituire fortune all’estero fatte di inutili montagne di soldi da impiegare in inutili maneggi finanziari. La figura di riferimento è il Mazzarò di Verga, il giudizio quello di Leonardo da Vinci: “Di lor non resteranno che cessi pieni”

Luigi Di Stefano

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