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La pastasciutta di “papà Cervi”, tra bandiera rossa e borsa nera

by La Redazione
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Roma, 24 lug – Una piccola considerazione storica sulla spaghettata antifascista di papà Cervi (ma guarda che modo strappalacrime di scrivere… “papà Cervi”. Neanche De Amicis… è proprio vero che l’Italia produce poco grano perché è tutta coltivata a retorica). Insomma Alcide Cervi per festeggiare l’arresto del Duce offre una pastasciutta ai paesani di Gattatico, caldaie di pasta condita con burro e formaggio. Ecco, da Repubblica del 22 luglio 2013, come viene presentata l’eroica mangiata cerviana. Quattro anni fa, ma vale anche per oggi:

La pastasciutta della memoria. Il nostro omaggio ai fratelli Cervi”

GATTATICO (REGGIO EMILIA) – Alcide Cervi e i suoi sette figli, quella sera del 25 luglio 1943, non avevano ascoltato la radio. Dovevano alzarsi presto, per portare a casa il secondo taglio di fieno. Per questo alle 23,15 – quando ci fu il grande annuncio – erano già a letto. “Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza Benito Mussolini… “. La notizia arrivò il giorno dopo, nell’aia della famiglia Cervi. “E io ero là, quella mattina. Ero ormai di casa. Agostino, uno dei fratelli, aveva sposato mia sorella Irnes.

Un altro Cervi, Gelindo, aveva sposato una sorella di mio padre, Iolanda. Allora avevo 16 anni…”. Giovanni Bigi, classe 1927, ricorda ogni minuto di quei giorni. “È passato uno in strada e si è messo a gridare: “l’è casché, l’è casché…”. È caduto, è caduto. “Ma chi è casché?”, chi è caduto? “Al Duce, i l’han mess in galera”. È il Duce, l’hanno messo in carcere”. L’intera famiglia si riunisce al fresco del portico. Ci sono Alcide e la moglie Genoeffa, i figli Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo. “L’idea della pastasciutta – racconta Giovanni Bigi – è venuta ad Aldo e gli altri si sono detti subito d’accordo. “Non possiamo fare una manifestazione perché se il Duce è caduto i fascisti e i tedeschi sono ancora qui e Badoglio ha detto che la guerra continua. Ma il popolo ha fame e allora gli diamo da mangiare. Non credo che avremo problemi””. L’organizzazione viene affidata a Gelindo. “È stato lui ad andare dal fornaio di case Cocconi per ordinargli la pasta. La farina? Due quintali li hanno messi i Cervi e mezzo quintale noi Bigi, che come i Cervi eravamo affittuari (…).

Certo, il grano si doveva portare all’ammasso ma noi contadini eravamo furbi. Prima dell’arrivo della trebbiatrice – sorvegliata dai militi fascisti – noi battevamo i covoni per terra, così recuperavamo parte del frumento. Nelle nostre case non si pativa la fame”. Il fornaio chiede l’aiuto delle donne di case Cocconi per impastare la farina. “Gelindo va poi alla latteria sociale Centro Caprara per chiedere al casaro di cuocere la pasta nelle grandi caldaie che servono a preparare il parmigiano reggiano. Anche il casaro chiede l’aiuto delle donne del paese per grattugiare il formaggio che sarà il condimento della pasta, assieme al burro. Non c’erano le grattugie elettriche, allora. Si faceva tutto a mano “. Tutto è pronto la mattina del 27 luglio. “E io, Bigi Giovanni, ho avuto un incarico importante: con il mio carro e il mio cavallo ho portato i bidoni pieni di pasta fino alla piazza grande di Campegine. Li ho caricati al caseificio alle ore 11”.

E adesso qualche considerazione.

Due quintali e mezzo di farina un momento in cui farina, burro e formaggio più che razionati erano introvabili se non a prezzi da strozzinaggio alla borsa nera. Ma “papà Cervi” ne ha DUE QUINTALI (il rimanente mezzo l’avrebbe messo un vicino, tale Bigi…) e tanto burro e parmigiano da condire caldaie di pasta, non pentole, caldaie per preparare il parmigiano! E bidoni per sfamare un paese intero mentre i soldati al fronte e civili devono tirare la cinghia e ricorrere ai surrogati, quando va bene! Questo un “povero contadino proletario” come vorrebbe la favoletta partigiana? E per chi non era un fratello Cervi come andavano le cose? Male. Molto male.

Sul mercato ufficiale risultano introvabili latte, zucchero, frutta, verdura, grassi (per quest’ultimi la razione è 150 grammi al mese) oltre al sale. A partire dal 1° ottobre 1940: il tasso di abburattamento della farina sale all’85% e sono sottoposti a razionamento i grassi (5 decilitri di olio, 300 grammi di burro o lardo o strutto per persona al mese). Tale quota verrà modificata nel febbraio-marzo 1941: due decilitri e mezzo di olio, 400 grammi degli altri grassi. Il 1° dicembre 1940 viene introdotta la tessera annonaria per pasta, farina di frumento e riso che prevede, a partire da gennaio, la possibilità di consumarne due chili complessivi a testa ogni mese. Ma nel febbraio 1941 viene modificata la razione individuale, con una diversificazione regione per regione. In Emilia la tessera da diritto a 600 grammi di pasta, un chilo di riso, 400 grammi di farina di frumento per persona al mese. A un anno dall’entrata in guerra, le relazioni dei questori riguardanti lo spirito pubblico descrivono una situazione già nettamente deteriorata: alla mancanza “sempre più accentuata dei grassi, degli olii e in particolar modo del burro, assente sul mercato anche nelle quantità previste dal fabbisogno annonario” si aggiunge la scarsità dei prodotti ortofrutticoli, del frumento (tanto che i produttori hanno dovuto “versare agli ammassi una parte delle scorte loro assegnate”) e della carne di pollo e di coniglio, causata dalla carenza di mangimi essendo il granturco usato per l’alimentazione umana (Questore di Bologna, 11 e 27 giugno 1941).

Nel corso del 1941 i divieti e le regolamentazioni si susseguono: il 22 settembre viene proibita la produzione di dolci, lo smercio della carne in scatola e viene istituito il regime dei pranzi a prezzo fisso nei ristoranti. Il 1° ottobre 1941 si arriva al tesseramento del pane: la razione, di 200 grammi a testa, è assolutamente insufficiente. Nel marzo 1942, l’anno peggiore in termini di apporto calorico, la porzione di pane diminuisce a 150 grammi per gli adulti, i 200 grammi sono destinati solo ai giovani dai 9 ai 18 anni. Tutto viene regolamentato: la vendita delle patate, delle uova, del latte, del formaggio, dei legumi. Per il latte viene scelto il sistema di prenotazione e vendita già adottato per la carne: iscrizione sul registro di un unico lattaio e distribuzione della merce, se e quando arriva. A causa della scarsa produzione e del divieto di importazione da altre province, a Bologna la quota di latte nel gennaio 1942 viene stabilita a un decilitro il giovedì e la domenica e a un decilitro e mezzo negli altri giorni. Il sistema dei vincoli sulla produzione e sulla distribuzione di determinati alimenti ne provoca la sparizione dal mercato: nell’autunno-inverno 1942-1943, ad esempio, dai banchi di vendita bolognesi mancano uova, burro, farina, baccalà, fagioli e fichi secchi, castagne, pere e mele.

La fame è sempre più dura per le famiglie operaie e quelle del ceto medio impiegatizio, abituate a vivere del loro stipendio. Secondo una inchiesta sull’alimentazione degli italiani, condotta nella primavera del 1942 dall’università di Trieste, circa 2.500.000 di famiglie soffrono la fame “nel pieno senso fisiologico della parola” e almeno altrettante hanno un vitto insufficiente. Complessivamente, oltre il 40% del campione esaminato vive al di sotto del livello alimentare minimo. (P. Luzzatto Fegiz, Alimentazione e prezzi in tempo di guerra, pp. 94-95). La drammatica situazione viene descritta da alcune testimonianze raccolte a Bologna nel maggio 1942 e riportate nel sito www.guerrainfame.it: “Stanno malissimo gli operai delle città. In un forno a Bologna assistetti ad un colloquio fra la moglie di un operaio ed il fornaio. Fornaio: ‘Oggi siamo all’8 e voi avete consumato i tagliandi fino alla fine del mese. Io non vi posso dare altro pane’. Donna: ‘Ma che cosa devo dare da mangiare ai bambini? Non ho più nulla’” E ancora: “La gente sente molto la mancanza di pane e pasta. […]. Il deperimento degli operai e specialmente delle donne è visibile. Molti soffrono la fame nel senso più completo della parola per dar da mangiare ai bambini” (P. Luzzatto Fegiz, cit., p. 78).

Agli inizi del 1942 il Questore di Bologna che, affrontando il problema del calo generale delle prestazioni lavorative in città, allerta il potere centrale di quanto sta succedendo: “Spesso i medici hanno constatato che gli operai sono diminuiti nel peso anche di 10 e 15 chili per cui la diagnosi è quella di deperimento organico”, segnalando l’esistenza di una fascia di popolazione le cui condizioni sono ormai al limite della sopravvivenza. Chi può permetterselo, per sopravvivere, deve obbligatoriamente rivolgersi al mercato clandestino che soppianta quello ufficiale, ma i prezzi degli alimenti sono elevatissimi per chi ha uno stipendio fisso: nel maggio 1944 a Bologna, ad esempio, un chilo di pane di contrabbando costa dalle 25 alle 35 lire, un chilo di burro può arrivare alle 1000 lire, uno di pancetta alle 400 lire, mentre il salario orario di un operaio specializzato del settore metallurgico non supera le 9,50 lire, quello di un manovale comune le 7,20 lire (L. Bergonzini, Bologna 1943-1945, p. 81).

Eppure nel luglio del 1943 Alcide Cervi e i suoi sette figli- nessuno dei quali è al fronte…- dispone di due quintali di farina, e burro e formaggio in proporzione e si può permettere di regalarli! Dunque, o è tutta una favola o è vero, ed allora bisogna avere il coraggio di dire, stracciando le cortine della mitologia antifascista e resistenziale, che “papà Cervi” altro non era che un borsaro nero e che i figli, sia pure comunisti, non erano partigiani ma delinquenti comuni (non a caso denunciati alla Gnr dagli stessi partigiani rossi…) dediti al mercato nero, all’accaparramento di generi alimentari e allo strozzinaggio. Solo questo. Borsari neri, non combattenti per la “libertà” (ma quale libertà?). Non c’è molto da festeggiare a suon di pastasciutta scotta e orchestrine “antifa” o folkloristiche.

Pierluigi Romeo di Colloredo Mels

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3 comments

nemesi 24 Luglio 2017 - 5:43

dati di fatto operativi.
spesso mi “diverto” a parametrare le mille fandonie sulla resistenza,in particolare quella delle “staffette” in bicicletta,incrociando numeri,buon senso e logica.
Una delle ultime boiate pubblicate (con tanto di video intervista allegato) riguardava una staffetta in bicicletta ancora in vita che al tempo -fatti due calcoli- avrebbe avuto avere tra gli 8-10 anni massimo,che diceva di percorrere esattamente 105 km andata + 105 km ritorno per portare le CIAMBELLE (!) ai partigiani in montagna,partendo da Milano;circa dieci ore al giorno di pedalate al giorno non male per una bambina; si vede proprio che nel Ventennio lo sport veniva curato !

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nemesi 24 Luglio 2017 - 5:44

“avrebbe DOVUTO avere” con scuse per l’errore-refuso.

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