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La serie Netflix sulle baby squillo dei Parioli: tanto rumore (e poco sesso) per nulla

by Ilaria Paoletti
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Roma, 3 dic – Nel caso di “Baby” la miniserie televisiva oggi disponibile su Netflix, molto liberamente ispirata alle vicende del giro di squillo minorenni dei Parioli venute a galla nel 2014, è il caso di dire, citando Shakespeare: molto rumore per nulla. La serie diretta da Andrea De Sica (figlio di Manuel, nipote di Cristian e, più importante, di Vittorio) ha ricevuto molte critiche perché inciterebbe la prostituzione minorile. Verrebbe da chiedersi se abbiamo visto lo stesso prodotto: la produzione Netflix non lascia in uno stato di shock, e le scene di sesso o di trasgressione che il pubblico si aspetta sono roba da educande rispetto a “Game of Thrones” o anche solo a “Suburra”.

La serie è, nel  complesso, molto ben diretta. I giovani attori, con un plauso particolare  alle interpretazioni di Benedetta Porcaroli e Riccardo Mandolini, sono molto credibili – a differenza dei prodotti di mamma Rai e degli epigoni cesaroniani, il loro essere romani non è calcato e fumettistico. Certo, nelle prime puntate, tra scuole private in divisa e parioline cattive alla “Mean Girls”, con la dicotomia “bionda” (la Porcaroli) innocente ma non troppo e mora (Alice Pagani, già vista in “Loro” di Sorrentino) intrigante e trasgressiva, sembra quasi di ritrovarsi in un film a metà tra “Avere vent’anni” di Fernando Di Leo e “La liceale” con Gloria Guida.

Le due protagoniste, partendo da basi differenti, arrivano (quasi) allo stesso risultato: quello di prostituirsi o di fare da accompagnatrici per denaro, ad avere dunque una doppia vita. Quello che le accomuna, però, è lo sfascio totale della famiglia. Tra genitori ricchi, annoiati, ma separati in casa, assenti ed arrivisti, o in crisi di mezz’età, le ragazze si muovono senza controllo sullo sfondo di Roma, libere cioè di vendersi indisturbate. In contrapposizione al mondo “algido” dei Parioli abbiamo la “calorosa” periferia, il Quarticciolo, che sembra poi più il Trullo dei pubblicizzatissimi murales e degli orridi poeti rupestri: con un escamotage già utilizzato da Virzì in “Tutta la vita davanti”, prendendo come personaggio positivo ed arcadico la vecchietta di Garbatella, il personaggio di Damiano (l’antieroe della serie, con il quale – spoiler advert – ovviamente scatterà il “love” con una delle due baby squillo) tenta di trovare rifugio nella nonna “romanesca”, nella piazzetta del quartiere, tra spaccio, pit bull al guinzaglio e ragazze coatte ma poco comprensive, senza, tuttavia, trovarsi mai a suo agio.

Le dinamiche adolescenziali non sono irrealistiche, anzi: forse gli adulti, al giorno d’oggi, non voglio rendersi conto di quanto queste ragazze, come nelle corse di atletica più volte riprese nella serie, corrano più veloce di quanto vorremmo. Nonostante la tagline accattivante e la pubblicità diffusa di Netflix, nell’opera di De Sica, spiace deludervi, c’è ben poco sesso, niente rispetto a ciò a cui ci ha abituato ormai la produzione di serie americane o italiane come “Suburra”: ma c’è molto marcio. Ma non è nei giovani tale marcio: se tra di loro c’è ovviamente competitività e cattiveria, non è più di quella del mondo degli adulti. Questi adulti, invece, che come nel mondo “reale”, sono colpevoli di essere assenti ed egoisti e, forse, di non essere mai usciti loro in primis dalla loro jeunesse dorée. Non è dato sapere se nelle intenzioni del regista vi è un intento moralizzante, ma la sensazione finale lascia l’amaro in bocca. E non è, di certo, il “lieto fine” romantico a risollevare la situazione.

Ilaria Paoletti

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