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La straziante storia dello studente suicida a Napoli

by La Redazione
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studente suicida Napoli

Roma, 18 dic – Sepolta Giulia Cecchettin, archiviata la tragedia, si è rimasti a discutere del “costume” che questa triste storia ha tirato fuori: la sorella arrampicatrice social(e) che finirà per essere scala per certe strampalate teorie; il padre che, dalla storia occorsa alla figlia, vede se può cavarci dell’utile pure lui; la nonna, artista incommentabile; i falchi sinistri travestiti da colombe che grazie ai loro “nemici” di destra al governo erano quasi riusciti ad imporre le loro assurde teorie, che oggi camminano anche sulle gambe della sorella di Giulia, per sbarcare nientemeno che nelle scuole. E così si è finito per mandare in cantina il vero protagonista della tragedia, quel Filippo che, nel bene o nel male, avrebbe dovuto essere al centro di dibattiti e discussioni, di studi e di riflessioni, ma che conviene cestinare perché è la prova provata del fallimento del loro stereotipo di maschio creato.

La straziante storia dello studente campano suicida

Abbandoniamo il ricco nord industrializzato, motore del Paese, dove le case sono perlopiù villette col giardino curato e dove non esistono i quartieri ghetto come lo sono le Vele di Scampia o il Parco Verde di Caivano e andiamo proprio in Campania, nella valle di Maddaloni, terra di mezzo tra le province di Caserta e Benevento: un ragazzo, un altro, si lancia dall’Acquedotto Carolino togliendosi la vita. Ragazzo per bene figlio di famiglia per bene, studente modello, due esami dalla laurea in Medicina che un bel giorno mette su carta i motivi del suo gesto, prende la macchina che abbandonerà con le quattro frecce accese e decide di farla finita.

Una storia che non viene portata alla ribalta mediatica, seppure i numeri della tragedia sfiorano quasi la consuetudine. Qui non c’è patriarcato da incolpare, non c’è tutto il contorno da poter strumentalizzare per perseguire strani fini sinistri; il neologismo “universitariato” evidentemente non è ancora un must cavalcabile. Eppure le cause possono essere rintracciate ancora una volta nella cultura tossica spacciata e che ha forgiato individui deboli, incapaci di reggere alla semplice pressione, figuriamoci alla delusione. Quella cultura tossica, nel caso specifico, secondo cui, se non ti laurei sei un fallito o, comunque, vali molto meno di chi si è laureato. Peggio, se ci hai provato e non ci sei riuscito. Un’ansia universitaria che vede in alcuni partiti politici un megafono perché le università siano più accessibili. È un caso la “crociata” del presidente della Regione Campania (maguardaunpo’!) contro il numero chiuso alla Facoltà di Medicina (maguardaunpo’!) con i suoi (ormai) insopportabili sketch di terz’ordine trasmessi in ogni dove?

Il patriarcato inesistente e la realtà

Non si pensa minimamente di rendere l’università più efficace, forse, persino “meno indispensabile” al mondo del lavoro. Nessuno non riconosce che per talune professioni ci sia bisogno di una preparazione tecnica, specifica e mirata, come può esserlo per la professione medica, per il campo ingegneristico o scientifico in generale, ma è pur vero che troviamo anche “occupati” nelle risorse umane, nella logistica con laurea in letteratura, in sociologia che nessuna correlazione hanno tra l’occupazione e il percorso di studi fatto precedentemente. Sono le cosiddette lauree “non sfruttate”, soprattutto in campo umanistico, non propedeutiche a determinate mansioni, che però richiedono una laurea come base di partenza, anche solo per il colloquio.

Colloquio al quale non si può nemmeno accedere se non si ha il famoso – o famigerato – pezzo di carta da esibire. Questa è la “cultura malata” su cui bisognerebbe lavorare, cultura, nemmeno nozionistica, neppure mera istruzione per la mansione che ci si trova a svolgere e che ha solo ritardato l’ingresso nel mondo del lavoro che, comunque, non beneficia di alcuna preparazione specifica mirata. Però, bisogna vivere e fare parte da protagonisti di questo mondo (e modo) in cui bisogna essere necessariamente laureati – fosse anche in “neomelodici”, come la tesi del presidente della Camera dei deputati Roberto Fico – se non si vuole essere considerati “inferiori” o “ignoranti”. Quantità e non qualità negli atenei, da cui si esce senza nemmeno comprendere un testo elementare, senza che si formino persone che possano poi trasmettere, o addirittura fare, cultura, se non insegnare: emblematico è il caso proprio della scuola, dove ormai è sufficiente anche presentare un progetto di musicoterapia per essere assunti e, poi, “passare di ruolo”. Un’infornata indiscriminata di cui la scuola italiana si è resa protagonista e dove, ormai, si trova di tutto. Tutto tranne che la capacità di logica e di analisi, di poter sviluppare un ragionamento e porsi delle domande a cui va risposto senza argomentare, ma solo con delle sterili crocette V/F a mo’ di test Invalsi. Un luogo dove bisogna formare e non informare, dove si può propinare psedo-cultura rivisitata & colorata a proprio uso e consumo, da accogliere e assorbire senza alcuna capacità critica. Senza alcuna ragion pratica, né pura. Sarà un altro caso, provato e provabile da un mero calcolo statistico, che ad “abboccare” ad ogni fregnaccia partorita, ad esempio, in merito alla pandemia sono stati i cosiddetti intellettuali e i supercolti e a resistere alla macchina delle bugie sono stati gli autodidatti, gli “ignoranti”, gli incivili, gli esclusi dagli ambienti che contano (perché probabilmente non si sono uniformati)?

Anche senza saper leggere né scrivere, l’importante è laurearsi. Anche se quel pezzo di carta sarà solo un quadro da esibire nel coro dell'”io c’ero”. Magari, il traguardo per fare contenti mamma e papà, mica sé stessi: ricordate la stucchevole polemica del papà cattivo che anziché andare ad assistere alla discussione della tesi della sua bambina preferì seguire la partita della Roma (che pare non avesse nemmeno impegni calcistici in quei giorni)?

Una laurea per gli altri, che non serve a sé stessi o che non serve addirittura. Soprattutto se a questa non si sopravvive; in primo luogo se genera ansia e si trasforma in fonte di malessere, quando dovrebbe essere un (gren)pass per la realizzazione e la felicità, per la vita e non un biglietto per la morte. Se, informa, non si riesce a dominarla. Una riflessione, questa, che, però, è meglio evitare, un problema che ha numeri a quattro cifre che è meglio considerare un finto problema. E se mai se ne parlerà, la colpa sarà sicuramente dell’eccessiva altezza dell’acquedotto carolino.

Tony Fabrizio

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