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Quando il lavoro non era “merce”. La lezione di Massi e del fascismo

by Redazione
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lavoro fascistaRoma, 1 mag – «La sorte del lavoratore è sempre più legata all’incertezza: e tale precarietà offende la personalità morale dell’uomo. Questo è un punto essenziale che si avvicina al cuore del problema. Il lavoratore percepisce talvolta un salario relativamente elevato eppure continua a sentirsi insoddisfatto della propria condizione, a ritenersi leso nei suoi diritti, a considerare ingiusto l’ordinamento in cui vive. La posizione economica del salariato si ripercuote sfavorevolmente sul suo spirito non solo in quanto il salario è insufficiente, e può anche essere sufficiente, ma in quanto incapace di dargli la sicurezza del domani e la fiducia nell’avvenire». In queste parole troviamo la fotografia della nostra impietosa situazione, dove globalizzazione e mercato stanno portando a termine la distruzione della dignità e della “socialità” del mondo del lavoro.

Non sono però frasi tratte da Il lavoro non è una merce di Luciano Gallino, ma analisi effettuate sin dai primissimi anni del dopoguerra da Ernesto Massi. Professore di geografia e animatore della rivista Nazione sociale, Massi è stato colpevolmente relegato nell’oblio dalla “cultura ufficiale” a causa della sua adesione al fascismo. Eppure, proprio nelle idee partecipative fulcro della «terza via» italiana risiedevano (e risiedono) le migliori intuizioni per analizzare e affrontare una crisi che appare irrimediabile. Una situazione in cui siamo arrivati non solo a causa della finanza, delle multinazionali e delle classi dirigenti che hanno smantellato confini nazionali e modelli sociali, ma anche per colpa “nostra”. Lavoratori e sindacati, negli ultimi anni in particolare, sono stati sempre più ingordi, miopi, individualisti, in prima fila nella sterile polemica, nel rivendicazionismo cieco e nella lotta in nome del profitto personale. Al contrario, sarebbe stato il caso di promuovere una logica di lungo periodo e di avere una coscienza non (solo) di classe, concetto sempre più sfumato, ma nazionale e globale. Il materialismo di questi soggetti è stato spesso il medesimo di quello del “capitale”, nient’altro che la logica conseguenza della vittoria di un sistema che privilegia l’io in luogo della comunità.

Impossibile quindi non ritrovarsi con le armi scariche per impostare battaglie efficaci. La lotta avrebbe dovuto andare in direzione del maggior coinvolgimento dei lavoratori nei processi produttivi e decisionali della propria azienda, mettendo la competenza al centro di un percorso di continuo miglioramento, in stridente contrasto con “l’invidia sociale” che è la cifra dell’Italia contemporanea. «La solidarietà tra i fattori produttivi, è storicamente dimostrato, non si crea dall’esterno con la contrapposizione, si crea dall’interno con la partecipazione, che non vuol dire sottomettersi al concetto di capitale, vuol dire affiancare in maniera matura la gestione aziendale, per limare le occasioni di disuguaglianza con proposte reali e non demagogiche o interessate», ha scritto Gianluca Passera. L’organica collaborazione tra datori, quadri, lavoratori dovrebbe essere il fulcro di un sistema mirante a fare del lavoro l’architrave della nazione, fino a portarne le rappresentanze in Parlamento mettendo la speculazione in un angolo. Proprio Massi si spese in questo senso per tutta la sua vita, conscio dell’importanza di un cambiamento strutturale della nazione per avere frutti duraturi.

Aveva visto lungo: crollato il Muro di Berlino e con esso la “paura” del concorrente modello sovietico, le conquiste sociali di partiti e sindacati nel dopoguerra si sono polverizzate con la velocità di un fulmine. Mentre la Carta del Lavoro e “mine sociali” della socializzazione delle imprese erano già state scientificamente cancellate dai liberatori nel 1945. Difatti, per quanto graduale, controllato e indirizzato dalla politica, il regime aveva saputo mettere in moto un processo originale e profondamente rivoluzionario, che si sviluppò sia sul piano pratico (pensiamo all’IRI e alla previdenza sociale) che filosofico. Da questo punto di vista sono innumerevoli gli esempi capaci ancora oggi di offrire spunti, senza bisogno di rifarsi a modelli sudamericani o presunte età dell’oro democristiane. Pensiamo alla fiamma sociale e anticapitalista di Berto Ricci, alla Storia del Lavoro di Amintore Fanfani e Luigi Dal Pane, alle Scuole sindacali, all’«Umanesimo del Lavoro» di Giovanni Gentile e al «Lavoro come pedagogia rivoluzionaria» di Bottai e Riccardo Del Giudice. Questo sindacalista, per descrivere il percorso fascista riportò che «il lavoro, emancipatosi via via dalla caratteristica di servile, che ebbe nell’antichità e, appresso, di lavoro-merce assegnata dall’economia capitalistica, sia diventato, presentemente, il soggetto dell’economia e, sottratto alle fluttuazioni del mercato e delle vicende della concorrenza, abbia acquistato quel sigillo di umanità che propriamente per sua natura gli conviene». Proprio da questo spirito trassero ispirazione alcune delle più significative esperienze del dopoguerra, l’Eni di Mattei e l’Olivetti in particolare. Ancora oggi, col trionfo della «società liquida» e della precarietà, sarebbe utile recuperare senza pregiudizi alcuni aspetti vitali di quell’idea di «terza via» e «Stato del lavoro» che fece dell’Italia un esempio europeo e mondiale.

Agostino Nasti

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Cesare 1 Maggio 2016 - 4:01

Con i banchieri al comando, il lavoro è solo merce e no vi è nessuna partecipazione del lavoratore ai frutti del suo lavoro e un impoverimento generalizzato. Auriti giustamente sosteneva che è il popolo a cui và riconosciuta la proprietà della moneta che serve per mettere in moto i mezzi della produzione, che deve essere dello stato e non di privati.Il fascismo liberatosi della massoneria anche straniera nel 1935 nazionalizzo’ molte banche e la Banca d’Italia e per questo i plutocrati stranieri ci giurarono vendetta facendoci le sanzioni con la scusa dell’ Etiopia e portandoci alla 2a guerra mondiale.Con il denaro a costo zero e non dovuto agli strozzini l’Italia usci’ dalla crisi del 1929 molto prima degli stessi USA e di altri paesi. In Italia si è avuto un crollo verticale del benessere e della ricchezza proprio dal 1992, anno della svendita e privatizzazioni delle ex banche pubbliche e della Banca d’Italia , divenuta privata in mano ai banchieri centrali stranieri. Oggi abbiamo una BCE privata che in cambio di carta prodotta a costo zero si prende tutte le ricchezze pubbliche e private.
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