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Le ragioni del No al referendum: le conseguenze negative della riforma del Titolo V

by La Redazione
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Titolo VRoma, 30 nov – Uno dei temi più rilevanti oggetto della riforma costituzionale in itinere, sebbene scivoli in secondo piano nel grado di appetibilità dell’opinione pubblica, è data dalla riforma del Titolo V (articoli 114-133), che, com’è noto, disciplina l’articolazione degli apparati e il riparto della potestà legislativa e regolamentare tra i livelli di governo della Repubblica. In altri termini, si tratta della revisione dell’organizzazione dei poteri pubblici dal livello più prossimo al cittadino (il Comune) fino al livello di garanzia dell’unità dell’ordinamento nazionale (lo Stato). Con riguardo alla riforma del Titolo V le principali novità riguardano l’abolizione delle Province, la nuova ripartizione della potestà legislativa tra Stato e Regioni, l’introduzione della “clausola di supremazia” e il rinnovato coordinamento della finanza locale. Inoltre, non di minor importanza, si assiste alla riformulazione delle norme costituzionali che regolano il processo di attuazione del diritto europeo nel nostro ordinamento. Nel seguito si va ad approfondire ciascuna delle novità appena accennate.

  1. L’abolizione delle Province, tra propaganda e necessità di coordinamento delle funzioni pubbliche sovra-comunali

Il d.d.l. Boschi-Renzi prosegue l’opera di revisione dell’“architettura istituzionale” intrapresa dalla cd. “legge Delrio” (n.56/2014), la quale – tra l’altro – aveva depotenziato il ruolo delle Province prevedendo per esse delle competenze enumerate e una rappresentanza politica di “secondo livello”. Con la riforma le Province sono espunte definitivamente dalla carta fondamentale quali enti costitutivi della Repubblica, i quali restano il Comune, la Città metropolitana e la Regione. Questo riassetto costituzionale merita alcune osservazioni critiche.
La logica che sembra aver guidato il Legislatore pare essere esclusivamente di carattere finanziario (con notevoli influssi propagandistici di “taglio della spesa pubblica”), poiché è stato dato un maggiore risalto al piano organizzativo rispetto a quello funzionale; ciò potrebbe comportare una suddivisione di livelli di governo teoricamente perfetta ma in concreto incapace di rispondere alle esigenze dei cittadini. Si pone infatti la questione della riassegnazione delle funzioni già svolte in precedenza dalle Province; in particolare, si tratta di funzioni di programmazione di medio-lungo periodo in ambiti di primaria importanza, quali, per esempio, la viabilità, i trasporti pubblici e l’edilizia scolastica.

Considerate le difficoltà strutturali dei Comuni italiani, tali da rendere spesso difficile anche l’esercizio delle proprie competenze, vi è ragione di dubitare che essi siano in grado di assolvere a funzioni di più ampio respiro rispetto a quelle tipicamente operative e limitate al proprio territorio. Né potrebbero soccorrere in tal senso le Città metropolitane (la cui disciplina, oggi abbozzata nella già citata “legge Delrio”, deve essere ancora compiutamente definita), poiché non sono concepite per coprire l’intero territorio nazionale, come è facile comprendere dai numeri: ad oggi sono previste 14 Città metropolitane in tutta Italia, un dato assolutamente non paragonabile alla complessità e all’estensione delle attuali 107 Province e dei 7.998 Comuni. Resterebbero quindi le Regioni a farsi carico delle attuali funzioni provinciali, non senza fondati dubbi di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa, vuoi perché in ogni caso si avrebbe il “salto” di un livello (dal Comune alla Regione, con notevoli differenze strategiche ed operative), vuoi perché comunque le Regioni dovrebbero dotarsi di ulteriori uffici ed organizzazioni di mezzi per espletare le ulteriori funzioni riallocate, con buona pace, quindi, delle argomentazioni sulla spesa pubblica.

Nella complessa questione della riassegnazione delle funzioni provinciali si deve evidenziare che l’art. 40, comma 4 del d.d.l. Boschi-Renzi, pur non modificando espressamente alcun articolo costituzionale, prende in considerazione gli “enti di area vasta” (la cui disciplina sarà rimessa alla legge regionale). Sembra quindi che il Legislatore, dopo aver eliminato un livello di governo territoriale, ne abbia ammesso un altro, consapevole del fatto che non si può così facilmente privarsi di un ente intermedio (tra Comune e Regione) nell’amministrazione di un territorio evoluto e complesso. E’ quindi assai probabile che le Province, così come oggi conosciute, possano continuare ad operare come “enti di area vasta”, in una sorta di reviviscenza di un ente formalmente, ma non sostanzialmente, abolito: è significativo, del resto, che nel d.d.l. di riforma costituzionale manca una disciplina transitoria che fissi un termine per la cessazione delle Province da ogni funzione e che regoli il trasferimento del patrimonio e delle risorse umane oggi in campo alle Province. Tutto ciò premesso, è chiaro che ciò che più affascina il cittadino-elettore medio che si recherà alle urne il prossimo 4 dicembre sarà l’illusione del “taglio dei costi della politica”, e soltanto in un secondo momento egli si renderà conto delle suesposte problematiche, le quali tuttavia incideranno in via immediata sulla qualità dei servizi pubblici.

 

  1. Il depotenziamento del ruolo delle Regioni e l’acuirsi delle (irragionevoli) disparità tra Regioni a statuto ordinario e Regioni a statuto speciale

Il testo di revisione costituzionale riscrive altresì l’articolo 117 della Costituzione in tema di riparto della competenza legislativa e regolamentare tra Stato e Regioni. La novità più rilevante consiste nella soppressione della potestà legislativa concorrente, per cui, nel quadro costituzionale tutt’ora vigente, in una serie di materie sia lo Stato, sia le Regioni sono chiamate a stabilire la relativa disciplina. La previsione della “competenza concorrente” ha creato nel tempo un enorme contenzioso (per il cd. “conflitto di attribuzioni”) tra lo Stato e le Regioni, che aveva costretto la Corte Costituzionale ad intervenire a più riprese per fissare criteri ermeneutici di precisazione e completamento del testo costituzionale. Il d.d.l. Boschi-Renzi supera le suddette difficoltà applicative aumentando il novero delle materie in cui lo Stato ha potestà legislativa esclusiva, realizzando di fatto un “accentramento” della funzione legislativa. Accanto alla potestà esclusiva dello Stato viene confermata la potestà esclusiva delle Regioni (art. 117, terzo comma, Cost.) e viene prevista la possibilità di un ampliamento dell’autonomia legislativa regionale a favore delle Regioni finanziariamente virtuose (cd. “regionalismo differenziato” di cui all’art. 116, terzo comma, Cost.). Tuttavia si può obiettare che l’aver scartato l’idea – tuttavia preferibile, a parere di chi scrive – di un modello in cui le Regioni eseguono e controllano le leggi anziché concorrere ad approvarle (scelta che avrebbe, invero, segnato un netto ritorno al passato e avrebbe conclamato il fallimento delle riforme costituzionali del 1997-1999 e del 2001) impone di trovare forme di cooperazione tra lo Stato e le Regioni: a tal proposito, però, la riforma costituzionale è assai debole.

Infatti, sebbene in linea di principio (o, sarebbe meglio dire, in via simbolica) il “nuovo” Senato rappresenti le istituzioni territoriali, si deve annotare che ad esso non sono riconosciuti significativi poteri, nell’ambito del procedimento legislativo, tali da garantire un’adeguata tutela delle istanze territoriali, in quanto tra le materie di competenza esclusiva statale è previsto per la maggior parte di esse l’iter legislativo ordinario, in cui il Senato ha un ruolo di secondo piano. Se quindi il modello che scaturisce dalla riforma costituzionale è quello di un regionalismo depotenziato, va rilevato che, nel frattempo, è destinato a farsi più netto il divario con le Regioni a statuto speciale e con le Province autonome di Trento e di Bolzano, alle quali, per espressa previsione (art. 38 del d.d.l.), non si applicherà la riforma del Titolo V fino all’adeguamento dei rispettivi statuti. Peraltro è facile prevedere che tale adeguamento degli statuti regionali avverrà in tempi molto lati, sia perché non è posto alcun termine di tempo entro cui tale adeguamento deve avvenire, sia perché l’adeguamento segnerebbe la rinuncia all’autonomia speciale. Ne consegue che, se fosse approvata la riforma, si avranno Regioni a statuto ordinario sottoposte a tutti i limiti della “nuova” Costituzione e Regioni a statuto speciale che manterranno i privilegi sanciti dalla “vecchia” Costituzione.

Nel contesto della revisione costituzionale il superamento delle autonomie speciali sarebbe stato forse auspicabile, tanto più che sono oggigiorno venute meno le ragioni storico-sociali che le giustificarono, mentre sono divenute vere e proprie rendite di posizione strumentalizzabili a livello politico-elettorale. Ebbene, la riforma costituzionale non solo non trova una soluzione a questo retaggio storico ormai irragionevole, ma è destinata ad aggravarne le conseguenze, in spregio ad una effettiva unità e solidarietà nazionale.

 

  1. La “clausola di supremazia” quale ulteriore (ed illimitato?) potere sostitutivo dello Stato

Che il ruolo delle Regioni nell’attuazione delle politiche pubbliche sia evidentemente depotenziato dalla riforma costituzionale Boschi-Renzi risulta ancor più chiaro dall’introduzione della cd. “clausola di supremazia”, stabilita dalla nuova formulazione dell’articolo 117 della Costituzione (comma quarto). Tale previsione consente alla legge dello Stato di intervenire in materie e funzioni che non sono di competenza esclusiva statalequando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Si tratta, a ben vedere, di un potere sostitutivo ulteriore e più incisivo rispetto a quello regolato dall’articolo 120 della Costituzionale, che tuttavia non trova (almeno espressamente) alcun limite nel rispetto del principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni e del principio di sussidiarietà, con conseguente accentramento non solo di poteri legislativi, ma anche di funzioni amministrative in favore dell’amministrazione centrale.

Lungi dal rappresentare un istituto volto a risolvere contrasti eccezionali tra Stato e Regioni, anche in ragione della vaghezza della condizione di attivazione della clausola stessa (qual è, infatti, la portata della “tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica”?), a parere di chi scrive la “clausola di supremazia” sembra rappresentare un grimaldello utile per scardinare la logica ed efficiente ripartizione delle funzioni pubbliche, specialmente quando il Governo (dalla cui proposta la procedura viene attivata) intenda “piegare” le resistenze politiche territoriali (immediatamente controllabili dal cittadino, con conseguente peso elettorale sugli amministratori locali) per la realizzazione di programmi o di riforme economiche-sociali che, a dispetto del proclamato “interesse nazionale”, possono essere mossi da aspirazioni lobbistiche o extra-nazionali (basti pensare a tutta l’attenzione che “i mercati” ripongono sulla riforma della costituzione nostrana).

Quanto appena detto è tanto più vero se si considera la lettura in combinato disposto dell’articolo 117, quarto comma, con l’articolo 70, quarto comma, alla luce della legge elettorale “Italicum” che, come noto, assegna un consistente “premio di maggioranza” alla Camera dei Deputati (pari al 54% dei seggi) al partito più votato. Alla luce di questo quadro normativo, è ragionevole ritenere che il partito di maggioranza (ovvero i gruppi e le logiche di potere che lo sostengono) possa imporre le proprie scelte sulle Regioni con l’apporto quasi irrilevante del Senato “rappresentativo delle autonomie locali”, poiché è stabilito (art. 70, quarto comma, Cost.) che l’attivazione della “clausola di supremazia” sia sottoposta all’esame del Senato (in un termine, tra l’altro, brevissimo, di soli dieci giorni), le cui proposte di modificazione (assunte a maggioranza assoluta dei componenti) sono superabili dalla Camera dei Deputati con il voto della maggioranza assoluta (e quindi, per via dell’Italicum, con il solo voto del partito di maggioranza).

Dal quadro appena delineato emerge in modo lampante che la “clausola di supremazia”, più che perseguire l’intento dell’unità giuridica ed economica nazionale, rappresenta un concreto rischio per le istanze locali, ossia quella parte del tessuto sociale ed economico ancora genuinamente legata agli interessi della comunità territoriale e nazionale.

 

  1. Il coordinamento della finanza locale: la fine (di fatto) dell’autonomia

La riforma costituzionale sottoposta a referendum si interessa anche dell’autonomia finanziaria degli enti locali. In proposito, l’articolo 33 del d.d.l. Boschi-Renzi sostanzialmente conferma l’attuale articolo 119 della Costituzione, fatta salva una modifica che può apparire, ad una lettura superficiale, una semplice sfumatura ma che, ad una più attenta analisi, cela una vera e propria perdita di fatto dell’autonomia degli enti territoriali.

Se infatti nel sistema ad oggi vigente le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni (oltre alle Province) possono stabilire e applicare “tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, con la riforma gli enti territoriali potranno comunque stabilire ed applicare tributi propri seppure “in armonia con la Costituzione e secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. In altri termini, con il nuovo articolo 119 della Costituzione lo Stato si riserva in via esclusiva la materia tributaria e la finanza pubblica, con la conseguenza che potrà ridurre l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali, finendo per condizionarne l’organizzazione amministrativa.

In sostanza, le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni saranno tenuti, con la riforma, ad esercitare le funzioni pubbliche a loro assegnate ma con margini limitati di autonomia di scelta impositiva, di spesa e di bilancio, con notevoli ripercussioni sull’adeguatezza dell’azione amministrativa (lo stanziamento di fondi disposto dalla legge statale, infatti, potrebbe risultare insufficiente per la copertura dei costi che le funzioni pubbliche comportano).

In altri termini, lo scenario prevedibile è quello di una nuova stagione di “tagli lineari” alla spesa pubblica sull’onda della “spending review”, tuttavia non senza fondati dubbi circa l’effettiva efficacia nell’ottica della riduzione degli sprechi, a sicuro discapito invece delle spese socialmente utili.

Ad ogni modo, quanto appena detto non sarebbe applicabile alle autonomie speciali, i cui sostanziosi privilegi fiscali non solo restano immutati nell’immediata applicazione della riforma costituzionale, ma risultano di fatto consolidati: infatti, in ogni caso il regime di finanziamento di tali autonomie resta escluso dall’adeguamento dei relativi statuti.

Si assiste pertanto ad una radicalizzazione delle differenze tra Regioni a statuto ordinario e Regioni a statuto speciale (e relativi enti locali), con le prime che, in ragione delle ridotte potestà normative e della ridotta autonomia finanziaria, sono destinate ad un livellamento verso il basso, mentre le seconde non avranno gli strumenti per risolvere le proprie contraddizioni, né a livello locale (come, per esempio, la grande mole degli sprechi finanziari) né a livello nazionale (posto che le autonomie speciali non concorrono ai meccanismi perequativi e che in taluni casi, grazie alla maggiore compartecipazione ai tributi erariali, sono in grado di mantenere un livello basso di tributi locali, realizzando una vera e propria concorrenza fiscale con le Regioni a statuto ordinario).

 

  1. L’attuazione del diritto europeo nel nuovo assetto costituzionale

Un ultimo aspetto che merita di essere approfondito riguarda la partecipazione delle Regioni (e degli altri enti locali) all’attuazione delle politiche dell’Unione Europea.

A tal proposito la riforma costituzionale garantisce sicuramente una maggior speditezza al recepimento degli atti delle istituzioni europee, per effetto di un duplice intervento.

Da un canto, l’accentramento delle competenze legislative in capo allo Stato, di cui si è già detto sopra, priva le Regioni (e, a cascata, gli altri enti territoriali) di poteri significativi in settori chiave dello stato sociale e dell’economia nazionale: giusto per menzionarne alcuni, la tutela della salute e dell’ambiente, le politiche sociali e di sicurezza alimentare, le politiche del lavoro, l’istruzione, l’università e la ricerca, le infrastrutture strategiche, i porti, gli aereoporti, le grandi reti. La competenza esclusiva statale su tali materie comporta che soltanto lo Stato potrà attuare le relative norme europee; si tratta, a ben vedere, di settori in cui i Paesi membri hanno già pagato abbondantemente dazio in nome dell’austerità. Nel complesso, si osserva che con la riforma costituzionale le Regioni e gli altri enti territoriali da una parte avranno margini di autonomia regolamentare e funzionale assai ridotta, mentre dall’altra saranno sicuramente sottoposti ai vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento europeo.

Dall’altro canto, quella parte dello Stato che dovrebbe fungere da garanzia delle istanze delle autonomie, ossia il “nuovo” Senato, anche in questo caso partecipa più da spettatore che da protagonista all’attuazione delle norme europee. Infatti il “nuovo” Senato avrà un ruolo paritetico alla Camera dei Deputati soltanto con riguardo alle leggi generali che regolano l’appartenenza all’Unione Europea e a quelle (previste dall’articolo 117 della Costituzione) che stabiliscono le norme di procedura per la partecipazione delle Regioni e delle Province autonome alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi dell’Unione (nelle materie di loro competenza), mentre avrà un ruolo secondario nell’approvazione delle leggi di adattamento dell’ordinamento nazionale agli atti dell’Unione (legge europea, legge di delegazione europea, leggi che recepiscono singole direttive). Il recepimento degli atti normativi europei diventa così monocamerale (ma si potrebbe anche dire, per effetto dell’Italicum, monopartitico), rispetto al quale il Senato ha, in concreto, meri poteri consultori.

Da quanto appena detto emerge un quadro piuttosto critico in termini di sovranità nazionale.

 Conclusioni

La riforma del Titolo V della Costituzione appare concepita per risolvere più “di pancia” (l’illusione dell’opinione pubblica dei tagli della spesa superflua; ma anche le grosse opportunità che si presentano per i gruppi di potere che meglio sapranno fare leva sul partito di maggioranza alla Camera dei Deputati, che riusciranno a penetrare con maggiore forza e più a fondo fino al tessuto sociale-economico locale) che “di testa” i meccanismi farraginosi che attanagliano oggigiorno la macchina statale. Piuttosto la riforma appare essere diretta, più che ad affermare la sovranità interna (in una logica di primazia dello Stato sugli altri livelli di governo), a consegnare la sovranità esterna all’arbitrio della maggioranza di governo e dell’Unione Europea.

Per queste ragioni al referendum la riforma sul punto merita un No.

Società degli Scudi

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