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L’Italia esce dalla “Via della seta”: gelo tra Roma e Pechino

by Sergio Filacchioni
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Italia

Roma, 6 dic – L’Italia ha formalizzato oggi la sua fuoriuscita – dopo quattro anni – dalla Belt and Road Initiative, inaugurata in pompa magna il 23 marzo 2019 dal Governo Conte e il presidente Xi Jinping. L’Italia ha consegnato 3 giorni fa una nota alle autorità del governo cinese con la disdetta dell’accordo da parte dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Che ha però confermato la volontà di mantenere l’amicizia strategica con la Cina.

L’Italia esce dalla “Belt and road initiative”

Roma è uscita dopo quattro anni dalla Belt and Road Initiative, il progetto faraonico e multimiliardario ideato da Xi Jinping che sedusse l’allora premier Giuseppe Conte e fece – va detto – infuriare gli americani. L’uscita formale dal progetto politico-commerciale ed infrastrutturale che permetterebbe alle merci cinesi di raggiungere capillarmente ogni angolo dell’emisfero settentrionale per mare e per terra con l’esclusione degli Stati Uniti, è avvenuta tramite una fredda e silenziosa disdetta del governo italiano. Una disdetta che l’Italia ha provato ad evitare cambiando i termini dell’accordo stesso – passando ad una disdetta per assenza di esplicito rinnovo – che però i cinesi hanno rifiutato dopo alcune settimane di rimpalli diplomatici. Alla fine per l’unico Stato del G7 che aveva aderito alla cosiddetta BRI è uscito di scena è coincisa con una lettera in cui comunque l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni si impegna a rilanciare il più possibile quel partenariato strategico che esiste da più di dieci anni fra i due Stati, ma che non è mai stato implementato fino in fondo. Sicuramente l’uscita dell’Italia è uno smacco che potrebbe avere effetti anche su altri governi, soprattutto in un momento in cui la mastodontica iniziativa cinese sta subendo duri colpi finanziari.

Possibilità sprecata?

Qualcuno si era sfregato le mani all’idea, e non solo economicamente parlando. Infatti, anche ideologicamente qualcuno era arrivato a benedire il progetto come una via Italiana per tentare il “colpo grosso” a danno degli americani. Come però già ammoniva Emanuele Fusi in un nostro articolo del 24 febbraio 2020, il rischio che ha corso l’Italia è stato quello di finire dalla padella nella brace: “Da alcuni è stata addirittura paragonata al Piano Marshall americano, un’occasione per creare ricchezza e benessere. Ma l’idea cinese è quella di aprire canali commerciali a senso unico capaci di veicolare con la massima efficienza possibile tutti i beni che la grande fabbrica di Pechino costruisce a prezzi imbattibili, se confrontati con i costi della nostra manodopera e della nostra legislazione sul lavoro. In Cina non esistono sindacati, non esiste una normativa di sicurezza stringente come da noi, non esistono diritti diffusi per i lavoratori, non esiste una normativa ambientale paragonabile alla nostra. Questi elementi fanno sì che il prezzo della produzione cinese sia inarrivabile per le nostre imprese. L’unica difesa da questa attività ostile sono i dazi commerciali, finalizzati a bilanciare le pratiche scorrette messe in atto dal regime cinese” e poi continuava  permettere ai cinesi una penetrazione senza barriere all’interno del nostro continente, offrendo i nostri porti come terminal per le spedizioni di Pechino, ci condannerà ad essere presto dei clienti senza potere. Una volta interrotta la catena produttiva dell’alluminio, dell’acciaio e della chimica non potremo fare altro che assoggettarci alle scelte della Cina in tema di quantità e di prezzi. Non disponendo più di un sistema produttivo completo e semiautonomo, saremo schiacciati dal volere dei cinesi così come oggi siamo schiacciati dal volere dei tedeschi in campo economico e dal volere dei francesi in campo politico”. Insomma, abbiamo corso il serio rischio di una dipendenza dalla Cina ancora più stringente di quella che ci lega adesso. Come spesso è bene ricordare, un’indipendenza politica ed economica non passa da un altro padrone.

Sergio Filacchioni

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