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Giuseppe Mazzini e “l’amor patrio” di Dante Alighieri

by La Redazione
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Roma, 17 mar – Nel 1826, a soli ventun anni, Giuseppe Mazzini scrive il saggio “Dell’amor patrio di Dante”, che invia anonimamente alla fiorentina “Antologia”, che però non lo pubblica. È solo nel 1838, nel giorno del suo trentatreesimo compleanno, che la madre, Maria Giacinta Drago, gli comunica che il suo scritto dantesco è stato editato dal torinese “Subalpino”. Mazzini capisce che a perorare la pubblicazione del saggio è stato Niccolò Tommaseo, prima collaboratore dell’”Antologia” e poi del “Subalpino”.

Lo scritto nasce come replica all’accusa rivolta a Dante di «d’intollerante e ostinata fierezza, e d’ira eccessiva contro Fiorenza». Mazzini afferma che per comprendere, per poi giudicare, le opere degli autori del passato bisogna cogliere il contesto in cui sono state scritte. «Uno è sempre l’amor patrio nella sua essenza e nel suo ultimo scopo», ma, «come tutti gli affetti umani subisce varie modificazioni, e veste forme diverse secondo che mutansi le abitudini, le costumanze, le opinioni religiose, e civili, e le passioni degli uomini che costituiscono questa patria, all’utile della quale si mira». Per Mazzini, dunque, col variare delle necessità della patria, devono variare i mezzi necessari per soddisfarle: «Ne’ bei tempi della romana repubblica il vero amor patrio era quello di Cincinnato; Bruto mostrò qual fosse sotto i principii della tirannide; Cocceo Nerva insegnò agli uomini qual alta prova rimanga darsi all’amor patrio, quando la servitù è irreparabile».

Secondo Mazzini il tredicesimo secolo italiano, nel bene e nel male, offre tutto ciò che la storia successiva del mondo intero avrebbe offerto. Il Belpaese è attraversato da irrefrenabili energie e forze tali che, se volte a realizzare un unico scopo, riuscirebbero a unire, rendere indipendente e affrancare dal giogo straniero l’Italia.

La discordia atavica, l’ambizione, gli interessi stranieri, la corruzione e la mancanza di una Guida che incanali il vigore delle genti italiche verso il bene comune, fa sì che «il flagello dell’anarchia ogni cosa percoteva».

Questo è il tempo in cui Dante «menò la dolorosa sua vita» rivolgendosi agli italiani con parole di fuoco e di sdegno provocate dalle disgrazie della sua amata patria, dai malvezzi e dalle colpe tramandati nei secoli. Come gli profetizza Cacciaguida nel paradiso, «coscïenza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua visïon fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna».

L’Alighieri diviene Priore e quindi, «vestita la severità d’un giudice, flagellò le colpe e i colpevoli, ovunque fossero, non ebbe riguardo a fazioni, a partiti, ad antiche amicizie; non servì a timor di potenti, non s’inorpellò ad apparenze di libertà, ma denudò con imparziale giudizio l’anime ree». E nella lotta tra Bianchi e Neri «spogliatosi d’ogni privata affezione, pronunziò la sentenza d’esilio contro ambe le parti (1301), monumento di severa imparzialità». Infatti, firmò anche la condanna all’esilio del suo amico e maestro Guido Cavalcanti.

Dante è schierato politicamente con i guelfi “bianchi”, per cercare di liberare Firenze dalla asfissiante presenza della Curia romana («là dove Cristo tutto dì si merca»; paradiso c. XVIII) che, con Bonifacio VIII, vuole mettere la città gigliata sotto il tallone dei Neri. Papa Caetani manda Carlo di Valois a rovesciare il Governo “bianco”, e fa condannare il Vate al confino. L’Alighieri, non riconoscendo il tribunale, non si presenta per difendersi, scegliendo così la via dell’esilio. Condannato al rogo, non tornerà mai più a Firenze.

Dante continua con le sue reprimende che vengono rigettate dai destinatari, «come da’ fanciulli la medicina»; però non gli interessano le caduche lusinghe dei contemporanei, ma la riconoscenza dei posteri. Questo concetto lo esprime nel XVII canto del paradiso quando afferma di aver timore, tacendo la dura e sgradevole verità, di non essere ricordato dalle generazioni future («e s’io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico»).

Dalle opere dell’Alighieri traluce il suo amore per la patria, che non è solo Firenze ma tutto il Bel Paese dove il sì suona. Ancora Mazzini: «Egli mirò a congiungere in un sol corpo l’Italia piena di divisioni, e sottrarla al servaggio, che allora la minacciava più che mai».

Dante, nell’affermare che la vera lingua italiana non è il toscano, il lombardo o qualsiasi altro dialetto, «si pronunzia con entusiasmo campione della favella italiana volgare, e predice a questa verginella modesta, ch’egli educava a più nobili fati, glorie e trionfi sull’idioma latino, ch’era ormai sole al tramonto».

Mazzini, inoltre, si appella agli italiani affinché studino Dante, in modo da potere apprendere da lui: «Come si serva alla terra natia, finchè l’oprare non è vietato; come si viva nella sciagura.» Questo appello è attualissimo anche oggi, in un momento in cui la Patria è aggredita da nemici esterni e interni, che molto ci hanno tolto, ma «nessuno può torci i nostri grandi; né l’invidia, né l’indifferenza della servitù potè struggere i nomi e i monumenti». «Ogni fronda del lauro immortale, che i secoli posarono sui loro sepolcri, è pegno di gloria per noi; né potete appressare a quella corona una mano sacrilega, che non facciate piaga profonda della terra che vi die’ vita».

Il genovese conclude il suo saggio con un appello che non possiamo non fare nostro. «O Italiani! Non obliate giammai, che il primo passo a produrre uomini grandi sta nell’onorare i già spenti».

Eriprando della Torre di Valsassina

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Maria Cipriano 18 Marzo 2019 - 12:20

Bell’articolo. Una boccata d’aria pura.

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