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Milan Danti: “Il Canton Ticino? E’ Italia, e vi spiego perché”

by La Redazione
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Roma, 6 lug – Intervista al giovane ticinese Luciano Milan Danti, da alcuni anni attivissimo nel ricostruire e diffondere gli episodi, le storie, la temperie culturale del profondo rapporto che ha sempre legato i ticinesi all’Irredentismo italiano. Danti ha inoltre riportato in auge L’Adula, che degli irredentisti fu la testata “storica”.

Partiamo dal rapporto attuale tra Ticino e Italia? E’ diffuso un sentimento negativo nei confronti del nostro Paese? Secondo te, perché?

Ci sarebbero tante cose storiche da dire a riguardo, ne avrei tante veramente, della Svizzera e soprattutto del Ticino, ma il discorso si può tradurre in semplice provincialismo; voi italiani (della Repubblica Italiana) ne siete affetti anche maggiormente, e di conseguenza anche i ticinesi (italiani non della Repubblica Italiana). Noi ticinesi essendo di cultura Lombarda abbiamo gli stessi identici vostri difetti, come i pregi. E quindi si tratta di “lotte fra fratelli”, in po’ come fra Firenze e Pisa. Nulla più.

Ti stai impegnando molto per ricostruire i legami tra l’Irredentismo italiano e la comunità ticinese. Da cosa e perché è partita questa tua necessità? Ti avvali anche dell’aiuto di storici e studiosi locali?

Cerco semplicemente di dire ciò che va detto e di riportare quel po’ di dignità storica che ci è stata negata. Noi ticinesi siano italiani ed in un non tanto lontano passato volevamo essere italiani anche con la forza, è un fatto. I vaneggiamenti di certi storici ticinesi che riportano un “ticinese” come buon patriota svizzero si possono sovvertire con molta facilità. Storici ticinesi che si sono inventati una realtà “ucronica”. Ecco il bisogno è questo: la dignità, la verità e la fierezza di appartenere ad un grande popolo, quello italiano, ma che ha il difetto di dimenticarsi della sua bellezza. Il mio storico di rifermento è il milanese Ferdinando Crespi e consiglio il suo eccellente libro ”Ticino Irredento’

Ritieni, in qualche modo, che il Ticino sia stato sottovalutato dall’Irredentismo italiano? Ancora oggi, in effetti, coloro che hanno a cuore l’italianità sanno ben poco dell’apporto, tutt’altro che secondario, che i ticinesi diedero al Risorgimento, alla Grande Guerra e al Fascismo. Puoi dirci qualcosa a riguardo?

Qua vi rispondo in maniera approfondita, riportandovi alcuni spezzoni di un mio scritto. Che a tutt’oggi l’argomento del Ticino irredento non sia stato adeguatamente studiato, è provato dallo zelo che viene messo nell’annacquarlo svuotandolo d’importanza, cosicché non si conosce con esattezza neanche il numero dei patrioti Ticinesi e Grigionesi che presero parte al processo di riunificazione della Madrepatria: ma si può ragionevolmente congetturare fossero molte migliaia, direttamente e indirettamente coinvolti, stante il fatto che l’Austria, dopo aver sollecitato più volte da Berna misure drastiche contro l’attivismo filoitaliano di quel suo cantone inquieto e ribelle, decretò il blocco delle frontiere con la Svizzera e l’espulsione di 6000 ticinesi dal Lombardo-Veneto che dall’oggi al domani si ritrovarono sul lastrico, senza lavoro, pagando così un alto prezzo al Risorgimento. Nello stesso periodo Berna provvedeva a espellere i frati cappuccini italiani che proprio in quegli anni si segnalavano per il loro attivismo patriottico e la chiamata a raccolta di combattenti per la Prima Guerra d’Indipendenza e la difesa di Venezia, in risposta all’incitamento lanciato dai Vescovi del Regno di Sardegna e da molti altri religiosi da tutta Italia. Parallelamente, il Governo svizzero iniziava lo sganciamento del Ticino dalla Chiesa di Roma che, pur avversa al Risorgimento nelle sue alte sfere, rappresentava pur sempre un legame con la penisola. I Ticinesi che tornavano dalle patrie battaglie ebbero noie e grattacapi con le autorità elvetiche e talvolta furono sottoposti a processi, come Antonio Arcioni, che ciò nonostante si precipitò poi a combattere per la Repubblica Romana nel 1849. Mazzini stesso venne espulso dalla Svizzera, considerato persona non gradita, costretto a nascondersi presso amici fidati, mentre il suo amico il conte Giovanni Grillenzoni, esule da Parma e acceso carbonaro, che aveva sposato una ticinese, figlia di un avvocato che aiutava gli esuli italiani, venne anch’egli espulso, e nel 1853 subì un processo coi patrioti Carlo Cassola e Ludovico Clementi per detenzione illegale di armi, raccolte assieme ad altri in vista di una sollevazione che probabilmente doveva coinvolgere, assieme al Tirolo, il Ticino medesimo. A quella stessa data veniva introdotto nel codice penale svizzero il reato di tradimento, da intendersi principalmente come irredentismo filoitaliano. Del resto, per rendersi conto del fervente clima di riscossa che si respirava nella Svizzera italiana ancor prima del Risorgimento, basta leggere cosa ne scrisse Giovan Battista Biondetti nel suo libro “Volontari ticinesi nel Risorgimento”, edito nel 1942: “le opere del Foscolo, dell’Alfieri, del Manzoni, del Leopardi erano lette ovunque nel Ticino. “Le mie prigioni del Pellico” erano lette avidamente fin nelle più sperdute casupole delle nostre più remote contrade. I versi infuocati del Berchet, declamati a gran voce dai giovani studenti, accendevano gli entusiasmi, mentre la satira mordace del Giusti (celebre la poesia in cui sbeffeggia e commisera gli austriaci) faceva maggiormente fremere i cuori dei Ticinesi per la causa italiana.” Appare dunque illogico ritenere che, in siffatto contesto, coloro che con tanto ardore cooperavano all’Unità d’Italia non la intendessero comprensiva anche di quella, tra le sue terre irredente, più incuneata geograficamente al suo interno. Riesce strano pensare che la trascinante forza ideale del Risorgimento non comportasse anche un discorso politico di ricongiungimento materiale alla madrepatria oltreché emotivo e sentimentale. E’ poco credibile pensare che Mazzini, che aveva fissato chiaramente i termini della frontiera alpina settentrionale con il famoso esempio del compasso puntato su Parma e sul fiume Varo, enunciato nella sua opera “I doveri dell’uomo” al capitolo V Doveri verso la Patria, si limitasse a stringer mani a qualche dignitario Ticinese fedele alla Confederazione, quando la frontiera alpina settentrionale da lui prevista andava ben oltre il Ticino, inglobando anche Zermatt, Saint Moritz, Coira (dov’è ora la sede della Pro Grigioni italiano), Davos e Ischgl (odierna stazione sciistica austriaca), il cui nome è di origine retico-Romana. Se i politici Ticinesi di ogni tendenza avevano tutto l’interesse a propugnare un legame solo culturale e sentimentale con la penisola, non così il Risorgimento, che si basava su di un progetto ben preciso di redenzione territoriale. E se in Corsica e a Malta giunse a maturazione il sentimento irredentista pur tra le maglie avverse francesi e inglesi, non si capisce perché nel Ticino le cose sarebbero procedute diversamente. Le cronache del tempo ci offrono del resto, fra te tante, una delle più toccanti e fulgide immagini del Risorgimento che oggi si stenterebbe a comprendere: quella della città di Lugano (che per noi italiani odierni è la “fredda e anonima” Lugano, abitata da gente che ci guarda dall’alto al basso) tutta ardente d’italianità, che s’illumina a giorno in piena notte alla notizia dei moti del ’48, coi Luganesi che saltano giù dal letto esultanti e imbracciano il fucile pronti a partire per l’Italia. Erano gesti inoffensivi, devoti alla Confederazione? In verità, fu proprio in questo clima d’indomabile effervescenza patriottica che il governo svizzero, temendo il peggio, si affrettò a concedere perlomeno in linea teorica tutti i diritti al bistrattato cantone italiano, integrandolo a pieno titolo nella Confederazione elvetica, nella cui Costituzione del 1848 esso figura assieme agli altri cantoni sovrani. Pur tuttavia, le belle parole contenute in quel testo non valsero ad appianare le contraddizioni, il disagio e l’inquietudine di una terra che si rapportava naturalmente alla madrepatria originaria, vedendo in essa il proprio punto di riferimento e il proprio baricentro. Fu pertanto la conclusione del Risorgimento con la sua incompiutezza e il suo necessario adattamento al contesto internazionale europeo, a far sfumare qualsiasi progetto annessionistico. E, del resto, se l’Italia aveva sacrificato Nizza e la Savoia, territori ben più estesi del Ticino e sempre appartenuti al Ducato di Savoia, in che modo avrebbe potuto rivendicare quest’ultimo che da oltre tre secoli non apparteneva più all’Italia? Se l’Italia penava così tanto per riuscire a riconquistare Roma, la capitale eterna cui tutta la nazione anelava, in che modo avrebbe potuto riottenere Bellinzona, Lugano, Locarno, Chiasso e Mendrisio? Ciò nonostante, all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, non mancarono dichiarazioni esplicite che nominavano il Ticino fra le terre irredente da riunire alla madrepatria: è lo stesso Carlo Cattaneo ad attestarlo, pur in pretestuosa polemica col Regno d’Italia e in difesa della Svizzera, nel suo libro “Terre italiane”, raccolta di scritti dal 1860 al 1862. Infatti, la frase pronunciata da Nino Bixio al Parlamento di Torino nel 1862 non lasciava adito a dubbi: “Quando saremo forti abbastanza, ce lo riprenderemo.” Le conseguenti affermazioni del ministro degli affari esteri generale Durando, che definiva come artificiale l’unione del Ticino alla Svizzera e come naturale la sua appartenenza all’Italia, fecero scattare le proteste di Berna, precedute da una presa di posizione altisonante delle autorità municipali di Lugano le quali si appellarono a tutti i Ticinesi, proclamandone la universale indignazione e la incrollabile fedeltà alla Svizzera. In verità non ci fu nessuna indignazione popolare dei Ticinesi alle dichiarazioni irredentiste italiane, e tanto meno una manifestazione della loro incrollabile fedeltà alla Svizzera, altro che nelle proteste ufficiali di facciata a cui proprio Berna aveva spinto le autorità di Lugano, la città più esposta all’irredentismo perché più vicina all’Italia. Pochi anni dopo, per le stesse ragioni, veniva espulso dal Ticino il giornalista Ippolito Pederzolli, un noto patriota trentino perseguitato dagli austriaci e colà rifugiato, che le autorità cattolico-conservatrici ticinesi tornate al potere e più strettamente legate a Berna, avevano bollato come “famigerato e frenetico irredentista” per aver fatto indefessa propaganda irredentista fra i Ticinesi, spronandoli all’azione, non solo, ma per averli definiti in varie sue corrispondenze “un popolo di ignoranti e di vigliacchi che non sanno ribellarsi all’oppressione del governo svizzero”. Conoscendo i loro malumori e il loro malcontento, testimoniato dalle grame condizioni in cui vivevano, Pederzolli non si capacitava come non fossero capaci di accendere la miccia di un’azione eclatante per l’Italia come tante ne avvenivano a Trieste, in Istria, nel Trentino e in Dalmazia nello stesso periodo: da qui l’infuriarsi del giornalista contro quella che gli pareva una vile rassegnazione al destino. La Grande Guerra esacerbò le intime contraddizioni di quella terra, e, ancor prima, l’impresa di Libia con la conseguente guerra italo-turca del 1911-’12 vinta dall’Italia, creò in Ticino tutto un fervente clima entusiasta di attesa e un’intensa partecipazione affettiva, con vasta eco sui giornali locali. Libico Romano Maraja, il disegnatore ticinese che negli anni Sessanta sarebbe diventato un illustratore di fama internazionale, nacque a Lugano proprio in quel periodo di grande condivisione da parte dei Ticinesi degli eventi del Regno d’Italia, e il suo nome ben lo dimostra. Il padre Francesco sarà poi espulso con tutta la famiglia dalle autorità elvetiche nel 1936 per attività irredentiste in favore dell’Italia. Anche se il Governo elvetico aveva dalla sua alcuni punti di forza (i diritti ormai concessi agli italiani, il monopolio della scuola e della cultura, la stampa allineata, la propaganda, le carriere politiche di rappresentanti politici solerti nell’affermare la fedeltà alla Svizzera, la vantata democrazia repubblicana), ciò non impedì, all’indomani della dichiarazione di guerra all’Austria il 24 maggio 1915, l’immediato sorgere in Ticino di numerosi circoli spontanei di sostegno materiale e morale ai fratelli italiani, la partenza di volontari, e l’attivarsi di varie iniziative che preoccuparono il governo elvetico spingendolo addirittura a occupare militarmente il Cantone con truppe provenienti dai cantoni tedeschi al comando del colonnello Maag, il quale divenne subito il bersaglio dell’odio di tutti i Ticinesi. Il governo di Berna temeva fortemente un’invasione da parte del Regno d’Italia, che i Ticinesi, salvo poche eccezioni, non avrebbero contrastato, ma che anzi molti aspettavano. Di conseguenza la sorveglianza divenne così stretta che tutto il Ticino si ritrovò dentro una pesante morsa fatta di censura, contravvenzioni di ogni tipo per controllare le persone in transito, perquisizioni a domicilio, arresti arbitrari, violazione sistematica della posta, accuse di spionaggio anche per semplici sospetti. I Ticinesi che festeggiavano alle stazioni ferroviarie i lavoratori italiani in partenza per la guerra di redenzione, si dimostrarono così calorosi e animatamente anti-tedeschi, da far scattare da parte dell’autorità militare elvetica il divieto di ulteriori assembramenti in onore dell’Italia, cui fece seguito l’occupazione a passo di carica di piazza della Riforma a Lugano, centro nevralgico dell’italianità ticinese. Qui, la sera del 26 maggio 1915, sfidando la proibizione, i Luganesi si radunarono in massa gridando “viva l’Italia!”, e vennero caricati dai militari più volte alla baionetta. Si evitò una strage per l’intervento deciso dei loro rappresentanti politici che li convinsero a tornare a casa protestando poi vivacemente con Berna. Sui giornali dell’epoca, se pur centellinate e rarefatte, sono reperibili queste notizie in ordine sparso, a controbilanciare le quali se ne inseriscono altre atte a dimostrare la fedeltà elvetica degli abitanti. Ma gli incidenti non mancavano, anche gravi, come quando, nei Grigioni italiani, venne ucciso a fucilate un gendarme svizzero che tentava di contrastare un festeggiamento in onore dell’Italia dove si esponeva il Tricolore. Ufficialmente neutrale, la Svizzera in realtà parteggiava per l’Austria e la Germania, al punto che venne alla luce uno scandalo di spionaggio a favore di queste, non solo, ma fu segretamente studiato dal Capo di Stato maggiore dell’esercito elvetico Arnold Keller un vero e proprio piano militare per invadere l’Italia, è da supporre in sotterraneo accordo con l’Austria. La conflittualità con il Canton Ticino, tutto proteso con il cuore ai fratelli di stirpe valorosamente combattenti, raggiunse livelli di guardia generando un profondo attrito con l’elemento germanico, già di per sé malvisto per non dire odiato, col quale ci si combatteva a suon di banchetti e raccolta di fondi a favore delle rispettive Nazioni. Né la fede dei Ticinesi svanì dopo il rovescio di Caporetto, ma anzi s’impuntò in una tenace convinzione della vittoria italiana addirittura superiore a quella che si registrò in Italia. Le scene dei Ticinesi che accorrono piangendo con i fiori in mano, nelle stazioni e in aperta campagna, al passaggio dei treni dei nostri soldati, acclamandoli, parlano da sole: scene a cui oggi si stenta a credere. Eppure erano vere. Non a caso, a quell’epoca, il simbolo più illustre e significativo dell’italianità del Ticino e della speranza irredentista era rappresentato dal linguista di fama europea Carlo Salvioni, personaggio certo non di poco conto. La sua vicenda personale di svizzero appassionatamente legato all’Italia e che, soffrendo di dover essere svizzero mentre si sentiva italiano, si era trasferito a Milano prendendo la cittadinanza italiana con tutta la famiglia, fu eternata da due targhe apposte sulla sua casa di Bellinzona e sulla facciata di Villa Caccia a Lugano: targhe che ricordano particolarmente i due figli di Carlo Salvioni, Enrico e Ferruccio, morti nella Grande Guerra combattendo “per la Gran Madre Italia.” Le circostanze in cui furono apposte le targhe all’indomani della Grande Guerra, nel 1919, con un solenne corteo preceduto dalla Banda Civica Filarmonica, composto da rappresentanti di tutte le associazioni Ticinesi e italiane in Ticino, sia a Lugano come a Bellinzona, la dice lunga sull’aria che tirava nella Svizzera italiana. Invece di essere considerato un traditore, Salvioni coi suoi figli era additato a modello e punto di riferimento, al punto da dedicargli targhe alla memoria, decorate con fregi e simbologie Italico-Romane. Perciò, pur con tutta la buona volontà di credere alla incrollabile fedeltà dei Ticinesi alla Confederazione, quantomeno essa stride con atteggiamenti che nella migliore delle ipotesi denotavano un’intensa affezione nei confronti della “Gran Madre Italia” piuttosto che della gran madre svizzera. Il Dipartimento politico federale, del resto, proprio nel 1919 elaborò uno degli innumerevoli rapporti sulla situazione in Ticino, definendola “preoccupante”, perché, anche se nulla di veramente pericoloso emergeva tranne qualche incidente sparso non meglio precisato, il solco fra i Ticinesi e le autorità elvetiche era molto profondo e abbisognava di urgenti rimedi. Del resto, che fosse una forzatura della loro intima natura e del loro retaggio avito farli diventare a tutti i costi quel che non erano, lo capiva anche un bambino. Come si evince da tutto ciò che si è detto fin qui, non fu il Fascismo a “inventare” la questione Ticinese, come da più parti polemicamente si afferma: essa esisteva già fin dai tempi del Risorgimento e ancor prima di questo, almeno fin da quando gli emblemi di Guglielmo Tell venivano strappati rabbiosamente dai “patriotti” per sostituirvi il Tricolore della Repubblica cisalpina, primo embrione dell’Italia unita. Il Fascismo non inventò nulla ma tutt’al più proseguì, e se gli animi in Ticino s’infervorarono ai tempi del Duce e nacque un Fascio Ticinese (il primo a Lugano nel maggio del 1921, ancor prima che il Fascismo prendesse il potere in Italia) composto da risoluti personaggi che volevano la riunione all’Italia, ciò fu la naturale conseguenza di un’irrequietezza identitaria permanente, tutt’altro che sopita dalla Costituzione elvetica, dall’integrazione democratica e dalle maldicenze degli italiani socialisti e anarchici, sciamati in Svizzera per sfuggire alla Polizia italiana tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, i quali spandevano ogni sorta di denigrazione del Regno d’Italia. I giornali “il Dovere”, “l’Adula” e poi, dal 1923, la “Squilla Italica”, furono la testimonianza di una brace identitaria che sfrigolava sotto la cenere, a cui la Polizia elvetica non lesinò sequestri, minacce, intimidazioni e incarcerazioni di redattori e giornalisti, mentre la stampa ufficiale li boicottava in tutte le maniere. Anche tenendosi lontani per prudenza da esplicite attestazioni irredentiste, accusati di essere comunque inaffidabili e italofili, i Ticinesi in generale non erano ben visti dal resto della Confederazione, nonostante i loro rappresentanti politici di tutte le tendenze si dessero da fare per mantenere l’italianità nell’alveo della più ligia fedeltà a Berna, profondendosi in pubbliche dichiarazioni di “elvetismo”. Ma la realtà dietro le quinte era diversa, e a Berna lo sapevano così bene che proibirono tassativamente per molti anni l’apertura di un sezione della società “Dante Alighieri”, noto focolaio di italianità che si sarebbe trasformato nel cavallo di Troia dell’irredentismo italiano in Ticino. Per le stesse ragioni, analogamente a quanto avveniva nell’Italia austriaca, non trovarono realizzazione agognati istituti di cultura italiana quali l’Università. Non si voleva ripetere l’esperienza dell’Università di Pavia fondata da Maria Teresa d’Austria con l’intenzione di farne il centro di formazione di una classe dirigente italiana filoasburgica, che si tramutò invece in uno dei più attivi focolai del Risorgimento italiano. Quando poi se ne parlò, fu semplicemente per estendere in Ticino un ramo dell’università di Zurigo, che era cosa ben diversa. Nel 1925, un articolo di Arminio Janner sulla prestigiosa rivista culturale zurighese “Wissen und leben”, metteva testualmente in chiaro che “i Ticinesi non combatterono, non soffrirono e non si esaltarono mai in piena comunione d’amore con gli altri svizzeri, e dunque è impossibile che un Ticinese sia svizzero come un bernese o un lucernese”, aggiungendo che “il pericolo per il Ticino, ora che l’Italia è grande e forte, è che soprattutto i giovani siano attratti nelle spire del sentimento nazionale italiano”.

Pensi che i ticinesi, in passato, si aspettassero un impegno maggiore dell’Italia nel ricongiungimento del Ticino alla nostra Penisola?

Qua rispondo “secco”: certo! Il Ticino non è mai stato rivendicato ufficialmente. Ma andiamo con ordine. Vediamo questo sentimento in maniera razionale, nel passato come nel presente. Durante il Risorgimento non è che a tutti gli italiani (nel senso degli abitanti o degli originari della penisola italiana e/o di lingua e cultura italiana) interessasse l’Unità d’Italia: questo concetto era, ed è sempre stato, un interesse spesso elitario e comunque che necessitava di una cultura adeguata e di un senso di appartenenza (Dante lo aveva secoli prima). Nel conseguente concetto “politico” l’irredentismo politico del Ticino è sempre stato richiesto come “motu proprio” da parte dei Ticinesi anche perché supportato da interessi ed intese politiche. Allo stesso modo potremmo citare l’esempio di Malta che facendo parte del Regno delle due Sicilie avrebbe dovuto far parte automaticamente del Regno d’Italia (e fino alla Seconda Guerra Mondiale i maltesi ritenevano l’Italia la loro naturale Madre Patria). Di conseguenza l’incidenza delle idee politiche (legate ad interessi economici) del momento prevalgono sulle idealità che vengono fatte conoscere alla moltitudine a prescindere dalla loro esistenza (cultura adeguata). La maggioranza del popolo “bue” vive comunque (Francia o Spagna purché se magna) senza ideali che non siano “pratici”. L’indole italiana è molto individualista e vede nell’attuale condizione del Ticino quello spirito campanilista molto presente sul territorio (che poi porta ad ulteriori evoluzioni spirituali tipo Guelfi e Ghibellini) per cui tende ad invidiarla piuttosto che ad acquisirla, come potrebbe essere pure per San Marino…ma poi in fondo ad altri “italiani di documento” piace essere italiani perché ci piace e di conseguenza ci fa comodo avere la possibilità di portare i nostri soldi in un paese “italiano” evitando il fisco italiano. Nei ticinesi questo concetto è diventato quasi un diritto (quello di ricevere i soldi di evasione) mentre a San Marino un motivo di servizio (qualche tempo fa un politico locale aveva dichiarato concettualmente: in fondo meglio portare i soldi qui, almeno restano in casa e non vanno ad arricchire stati stranieri). Quindi la redenzione di un Ticino irredento deve passare per le banche e fiduciarie per far si che il bue si stacchi da Berna. Idealismo o no, lombardi o italiani; questo è il punto della situazione nel Ticino d’oggi!

Cosa ti senti di dire agli indipendentisti e secessionisti, che negano la legittimità dell’Italia come entità statuale e sottolineano l’esclusivo legame del Ticino alla vicina Lombardia, nell’ottica di una macroregione Insubre? Ha ancora un senso ribadire e rivendicare l’identità italiana in Ticino?

Anche io ero indipendentista lombardo. Ma leggendo, informandomi e studiando ho capito che la nostra grandezza è nata per essere italiana e non solo lombarda. Ma dico anche che tutti i movimenti che riconoscono il Ticino come “non svizzero” mi stanno simpatici. La macro Regione insubre è da sviluppare, ma con i politicanti orribili che abbiamo oggi è cosa assai dura. Sia in Italia (Stato) e sia in Ticino abbiamo una classe politica immonda che pensa solo a fare marketing con argomenti che portano loro voti e gli fanno fare carriera. Ma cuore zero. Ripeto, il concetto fila, mi fa schifo è la classe politica che la fa andare avanti. Ed in questa ottica, comunque, un po’ di autonomia locale non fa male.

Tu sei giovane e l’apporto che stai dando alla riscoperta dell’italianità in Ticino è fondamentale e non solo a livello storico ma anche linguistico, paesaggistico, biografico, culturale. Programmi in cantiere e prospettive per il futuro? Cos’hai in mente, cosa ti proponi di raggiungere in concreto?

Che dire, non mi piace parlare di me. Ecco… questa affermazione fa già da biografia. Intanto ho mille idee. È dura. Anche perché non si ha un’Italia forte da usare da esempio, ma solo storia. Il mio è un sogno. E sogno un’Italia forte. Un sogno di tutti i patrioti italiani. Concretamente? Ho il cuore a svariati portali internet che stiamo facendo crescere. Un partito (Lega Sud), e sono attivo in diverse associazioni. Ma è dall’Italia che bisogna ripartire. Ripeto, di concreto ho solo tanto cuore.

 

Tu hai riportato in auge un “titolo” storico dell’Irredentismo italiano in Ticino, l’Adula? Puoi spiegarci in breve la sua importanza storica in passato e quella che, invece, può rivestire attualmente?

Teresina Bontempi, con l’amica Rosetta Colombi, fondò “L’Adula”, giornale paladino dell’italianità del Cantone Ticino. Adula, dal nome del gruppo montuoso che divide, geograficamente, il Ticino dalla Svizzera d’oltre Gottardo, e, umanamente, i ticinesi dagli svizzeri. Dalla sua prima uscita, nel 1912, gli articoli apparsi cercarono di ostacolare “l’intedescamento” del Ticino, un fenomeno che riguardava anche il Grigioni italiano. Il giornale espresse ai lettori analisi preoccupanti di fronte alla presenza e alle influenze degli svizzeri e del fatto che fossero alloggiati in posti decisionali nelle istituzioni ticinesi. Se a livello della popolazione più accorta questa situazione poteva generare qualche malumore, in alcuni ambienti politici fu l’appiglio per rivendicare l’italianità linguistica, culturale e storica. Oggi ha senso, come aveva senso a quei tempi, anche se in altro contesto, marcare forte cosa siamo.

In chiusura, ti senti di voler dire qualcosa in particolare ai lettori de Il Primato Nazionale?

Vi seguo spesso. Devo dire di non condivide tutto. Ma siete molto razionali e mi piacete! In particolare quando trattate la Storia. Andate avanti così, ma ricordatevi che l’Italia non è solo la Repubblica Italiana. L’Italia geografica non coincide con la Repubblica Italiana. Per Italia s’intende l’attuale Repubblica Italiana, Corsica, Nizzardo, Monginevro, Valle Stretta, Moncenisio, Svizzera italiana, Val Monastero, Venezia Giulia storica, Pelagosa, Malta. In aggiunta la Dalmazia. W l’Italia W il Ticino ITALIANO.

a cura di Maurizio L’Episcopia

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