L’Italia appare in prima fila nel suicidio. Nel 2011, la sua classe politica ha appoggiato l’intervento in Libia contro Gheddafi (voluto in particolare da Francia e Inghilterra) aprendo la strada al caos e al fondamentalismo islamico in un paese a noi vicino, che è ora il crocevia privilegiato per le masse di disperati verso il nostro paese. Allo stesso tempo, partiti come Sel e politici come la Boldrini non hanno smesso di esaltare la figura del “migrante”, descritta addirittura come «avanguardia di quello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». La figura dell’immigrato e dell’individuo s-radicato viene esaltata a prescindere, in linea con lo spirito dei tempi che prevede di odiare qualsiasi forma, qualsiasi identità, qualsiasi orgoglio patriottico. Non c’è rispetto e onore alcuno verso chi costruì la Nazione dal Risorgimento ad oggi, passando per la Prima guerra mondiale, eventi non a caso mai ricordati a dovere.
Alcuni apologeti dell’accoglienza a prescindere parlano dello straniero come portatore inevitabile di arricchimento culturale, finendo per trascurare quella che è la nostra storia e identità nazionale, regolarmente minimizzate se non messe sul banco degli imputati: «con grande disinvoltura logica, le differenze vengono considerate una ricchezza quando si tratta di legittimare l’immigrazione, ma una “finzione” o addirittura indice di “razzismo” se ad esse ci si appella per criticare i fenomeni migratori», ha scritto giustamente Giovanni Damiano. E poi, come giustificare la ricchezza della differenza culturale se la base (inconsapevole o meno) di tutta la classe dirigente odierna, dall’accademia alla politica, è l’individualismo egualitario e liberale, per cui tutti gli uomini sono uguali a prescindere dai legami nazionali? Infine viene da chiedersi come mai i processi di decolonizzazione e di emancipazione nazionale dei paesi africani siano descritti entusiasticamente da storici e media nostrani, se poi si lascia fuggire tranquillamente la gioventù e gli uomini migliori del continente nero verso l’Europa come manodopera a basso costo, al canto delle sirene del “modello Occidentale”. Gli stati africani vengono così sfibrati nel tessuto sociale e resi incapaci di avviare uno sviluppo realmente autonomo. Quella che sarebbe l’unica medicina al disastro attuale, cioè una politica di aiuto e collaborazione nei paesi di origine, diviene così impossibile a detrimento di tutti gli attori sulla scena.
Il fiorire di movimenti nazionalisti e populisti, il ritorno delle frontiere e la messa di discussione di Schengen: tutti segnali che, al di là della retorica eurocratica e “dirittoumanista”, qualcosa ancora si muove nel nostro continente, per quanto confusamente. La battaglia è in fondo molto semplice, e riguarda chi ancora sente come validi e profondi concetti come Patria, orgoglio, identità. Nel nostro caso, a ricordarcelo tornano le parole vergate molto tempo fa da Berto Ricci nello scritto Italianità naturale e pratica, uno degli esempi più belli di appartenenza radicata, aperta (la sua rivista era L’Universale) e guerriera: «siamo Nazione prima che Stato, e Dante e non Cavour è il nostro fondatore. Potrebbe non esistere il regno, ed esisterebbe sempre la nostra civiltà, dunque l’italianità naturale. Questa consiste in niente e in ogni cosa: in una risata di Rosai, in uno sberleffo di ragazzo, in un mercato sotto i portici romagnoli, in un proverbio in lingua incomprensibile friulana: e può splendere tanto in un verso di Leopardi quanto in cose che paiono inanimate, come strade, piazze, vigne e giardini. Mi diranno che questa è metafisica: eppure non comprenderà nulla dello stato d’Italia, e della sua storia, chi non ha girato a lungo, ascoltando e guardando, per le città e borghi nostri, e ragionato con la gente, sentiti gli umori degli uomini, colta in una frase e in una sottigliezza qualunque l’anima della Patria». Parole ancora attuali, così come il tagliente appello contro la cronica mancanza di senso nazionale del mondo intellettuale, testimoniato oggi dal vuoto della cultura buonista e radical-chic: «E io vorrei che gli scrittori fossero i più italiani degli italiani: fossero gli uomini più pronti, più sensibili, più colmi di vita, più esperti di tutto, più d’anima popolare, e senza quelle facce spiaccicate, què ceffi canini a punta, quelle bocche tagliate in tralice, dalle quali non ci si può aspettare nulla di buono».
Agostino Nasti
2 comments
Buonasera. Mirabile la citazione di Berto Ricci, che racchiude in poche righe quel sentimento che ogni buon italiano dovrebbe esperire ad ogni angolo del proprio suolo natio. E’ una percezione direi quasi istintiva, che viene dal profondo e che ci fa percepire il legame antico che ci unisce ai nostri avi e alla nostra storia. Come cantava qualcuno: “..l’intera Nazione, se impari ad amarla è casa tua!”.
Saluti,
Sandro Righini
Gruppo di Studio AVSER
Bellissimo articolo pieno di lucidità e speranza.
Tucidide stesso ci insegna che opporsi all’ineluttabile si può e si deve.
https://aristocraziaduracruxiana.wordpress.com/2013/02/03/lineluttabilita-di-uninvasione-non-puo-essere-valido-titolo-di-resa/