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Perché il multiculturalismo domina nella pratica (al di là delle teorie) e perché è un disastro

by Stelio Fergola
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multiculturalismo francia

Roma, 3 lug –  Il caos francese ha scatenato alcuni dibattiti teorici sui cosiddetti “modelli di integrazione” e sulle loro differenze rispetto al presunto feticcio del “multiculturalismo”. Il quale nella teoria esiste solo in determinate realtà che lo promuovono, nella pratica domina ovunque, costituendo una delle principali ragioni dei disordini in corso, sotto ogni profilo immaginabile: identitario, culturale, sociale e – ovviamente – economico.

Il multiculturalismo domina, ed è un disastro senza appello

L’integrazione è una pia illusione, e su queste pagine abbiamo spiegato varie volte il perché. In questo caso, però, vogliamo concentrarci su come, a volte, basti parlare a spron battuto di una teoria per dimenticarsi completamente della realtà circostante: addirittura quando essa si presenta in maniere similari, nonostante quadri teorici di partenza differenti. La “Francia non è multiculturale” si è urlato da angoli svariati del web – spesso di ispirazione immigrazionista – perché lì lo Stato non presuppone un modello di dialogo tra le varie comunità culturali presenti all’interno del Paese ma l’assimilazionismo, ovvero un sistema secondo cui gli immigrati sono tenuti a seguire la cultura francese e le sue caratteristiche.

Ma la Francia, nella realtà concreta e non quella immaginata dal suo modello di integrazione, cosa è? Di fatto, è un multiculturalismo e multietnicismo in perenne stato di sedimentazione, almeno nelle periferie. Se questo multiculturalismo non “dialoga” come teoria vorrebbe, c’è da prenderne atto, non da insistere parlando di una realtà che non esiste. Chi “diventa” francese non lo fa mai completamente (nella migliore delle ipotesi), e non rinuncia tanto facilmente a caratteri spesso fondamentali come la religione islamica (ovviamente, se fa l’esempio di immigrati di provenienza nordafricana). Ora, volgiamo lo sguardo ad altri contesti, come quello svedese. Lì ha dominato un modello – anche nella teoria, in questo caso – multiculturale, ovvero basato sul dialogo tra le varie componenti etniche e culturali portate praticamente a forza nella società scandinava. Nella seconda fase della lunga storia immigrazionista svedese, avviata intorno agli anni Novanta del secolo scorso, la cosiddetta Integrationspolitik si è conformata con lo Swedish Integration Policy for 21st century , un documento che ammetteva precipuamente di voler raggiungere questo scopo: mettere insieme comunità etnoculturali diverse nel “rispetto reciproco”. Il risultato? Il multiculturalismo e il multietnicismo, in Svezia, dominano (esattamente come in Francia dove si propone in teoria un modello diverso), ma di pace sociale ce n’è molto poca. Nel nuovo secolo, il Paese scandinavo è diventato teatro di continui attacchi  e scontri tra comunità. Nel 2010 sono celebri le esplosioni a Stoccolma, mentre negli ultimi anni sono diventate tristemente famose le situazioni di alcuni luoghi multietnici come Malmo, o quartieri della capitale come Rinkeby, dove il 90% è straniero e una giornalista del Dailly Mail, Katie Hopkins, ha raccontato di aver fatto fatica perfino a visitarne i luoghi, essendo spesso oggetto di scherno e di insulto da parte dei “nuovi abitanti” solo perché donna e bianca.

Le teorie sono belle cose, ma la realtà concreta non sempre coincide

In Francia i popoli diversi non diventano tutti francesi come teoria vorrebbe esattamente come in Svezia non dialogano tra loro sulla base delle loro differenze come teoria vorrebbe. Il punto in comune, tuttavia, c’è, ed è il caos. L’impraticabilità di un’imposizione simile. Oltre agli scontri culturali, etnici, e sì, anche economici. Ma l’economia, troppo spesso messa al centro della scena in modo esclusivo, è “spesso” essa per prima “etnica e culturale”. Si pensi ad alcuni settori della nostra economia ultracolonizzati – specialmente nelle grandi città, nei piccoli centri il quadro è diverso – dagli stranieri, come quello ortofrutticolo (dominato spesso dai nordafricani). O come i negozi al dettaglio che riguardano articoli per la casa (soprattutto da popolazioni di origine asiatica). È qualcosa che viene da lontano, da chi rappresenta una stramba fonte di ispirazione per tutto ciò: in una città multietnica per eccellenza come Los Angeles, nel 1992 scoppiò un putiferio tra popolazioni astiatiche e nere per via dei prezzi praticati nei negozi gestiti dai primi in sfavore dei secondi. Perfino Ulderico Bernardi, in un testo che promuoveva eccome l’immigrazione e il multiculturalismo come Cultura e Integrazione. Uniti dalle diversità, in un passaggio fu costretto a riconoscere la “tensione tra minoranze razziali non-bianche”, proprio riferendosi agli Usa che sotto questo aspetto potrebbero addirittura costituire un’eccezione, dal momento che hanno avuto bisogno dell’immigrazione per popolare il loro – fino ad allora – desertico territorio nel XIX secolo. Ciò nonostante, anche lì le cose non scorrono esattamente liscie come l’olio, e “l’attenzione della ricerca e della cronaca si è più spesso puntata sui rigurgiti di razzismo bianco”.  Anche l’economia è spesso “etnica”, e ignorare la realtà non è un modo intelligente di studiare quanto sta avvenendo, quanto meno nei Paesi occidentali. Perché citare le eccezioni o le realtà che vivono contesti di partenza completamente diversi e spesso millenari (come imperi o territori che è stato necessario addirittura popolare, come l’Australia) non cambia il quadro reale. Della realtà si può prendere atto oppure fare finta che non esista sulla base di ciò che si dice di ricercare.

Stelio Fergola

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