Milano, 17 apr – Gli omicidi avvenuti al Tribunale di Milano giovedì 9 aprile hanno mosso le acque della politica e dato argomenti validi ai talk show delle reti nazionali. A quanto pare il governo sta pensando a una modifica della legge sul porto d’armi.
Considerato che l’Italia è uno dei paesi europei con la normativa più rigida in materia di porto d’armi, la stretta di cui si discute riguarda la licenza sportiva, la cui richiesta negli ultimi anni in Italia è aumentata considerevolmente.
Evidentemente l’aumento di licenze sportive è un escamotage utilizzato da molti per garantirsi gli strumenti ritenuti necessari a un’eventuale difesa personale. A meno che non si ritenga una fetta consistente di italiani degli appassionati del tiro al bersaglio, c’è un serio problema di sicurezza a cui lo Stato non sa dare risposta. O per lo meno questa è la percezione – il che è lo stesso.
Come opportunamente sottolineato dal governatore del Veneto Zaia alla trasmissione L’aria che tira, quando lo Stato abbandona i suoi cittadini e furti e crimini sono in aumento anche a causa dei numeri della criminalità immigrata, è ovvio che il cittadino si senta in diritto di difendersi come può. In buona sostanza Renzi e compagni dovrebbero operare delle scelte più oculate e popolari in materia di politica interna e sicurezza.
Ma come in tutte le cose che hanno a che fare con l’uso della forza, la responsabilità e il diritto alla difesa personale si è stesa una patina opaca di morale distorta sulla questione.
Se un rapinatore fa irruzione in una casa e spara al proprietario con una pistola rubata nessuno muove mari e monti contro l’immigrazione clandestina, il traffico illegale di armi, la criminalità organizzata e quant’altro. Se uno squilibrato ammazza un magistrato (e un avvocato e un altro uomo) il mondo della politica inizia a sentire i brividi freddi lungo la schiena. E il problema, dicono, sono le armi, la facilità con cui chiunque può tenere in casa una polveriera ad uso sportivo.
Seconda la mentalità da obiettore di coscienza e da pacifista – ovvero coloro che stanno sempre dalla parte del più forte per non mettersi in gioco e non rischiare di farsi male -, la detenzione di armi in casa è in buona sostanza un incentivo all’uso delle stesse e non un deterrente alla criminalità incontrollata. Estremizzando i termini della questione: chi detiene legalmente un’arma da fuoco è un potenziale e consapevole omicida. D’altra parte, chi non ha mai conosciuto cosa implichi l’uso della forza (magari su un tatami) in fatto di autocontrollo e intensità è spesso il primo a parlare e quasi sempre lo fa a sproposito.
Vale la pena di ricordare che la stragrande maggioranza degli omicidi, specie i più efferati, avvengono spesso con l’utilizzo di armi improprie. Ora, quando il “buon” Kabobo ha scelto di arricchire l’Italia mostrando la sua maestria col piccone, sfoltendo la popolazione autoctona, nessuno ha pensato di evidenziare la pericolosità dei picconi e perché no dei coltelli da cucina venduti nei supermercati.
Gli squilibrati, dunque, fanno media?
Proviamo a spingere un po’ oltre il ragionamento con una provocazione.
Cosa sarebbe successo se nel Tribunale di Milano altre persone vicine all’omicida fossero state armate? Se magari l’avvocato avesse avuto con sé una pistola legalmente detenuta? Forse le cose sarebbero andate diversamente.
Renzi ha fatto sue idee che oltreoceano vanno da tempo di moda tra i circoli di sinistra: la lotta contro la “proliferazione” delle armi e la retorica ad essa legata. E si badi: non parla del contrabbando illegale di armi da fuoco. Cosa che ad esempio interesserebbe la facilità con cui nei campi Rom si può acquistare una pistola “pulita”.
Parlare di proliferazione di armi in Italia è assurdo, ma forse non sarebbe assurdo riflettere su cosa comporterebbe una diffusione più ampia della detenzione legale di armi da fuoco.
Affiancata a una legge più matura in materia di legittima difesa e con i dovuti controlli medici e chiari parametri psico-fisici da rispettare, probabilmente la detenzione di armi tra i cittadini italiani significherebbe un maggior senso di responsabilità da parte di tutti, una più attenta gestione di quartieri e spazi comuni, un senso più diffuso di comunità.
Un quartiere in cui la maggioranza delle persone sa maneggiare un’arma per autodifesa è un quartiere in cui per forza di cose vi è cooperazione e confronto tra gli abitanti, allo scopo di monitorare la situazione e, soprattutto, per evitare di ricorrere alle maniere estreme. Ancora, l’utilizzo della forza come extrema ratio è un fatto di civiltà che spinge la comunità alla convivenza responsabile, a una maggiore attenzione alla propria e all’altrui salute e sicurezza. Questo significherebbe anche, con le dovute modalità, un minor impegno delle forze dell’ordine oggi costrette a spartirsi enormi aree urbane senza la reale possibilità di tutelarle pienamente.
La vita insegna che rifiutare per principio la violenza non implica che la controparte faccia altrettanto. Incentivare la responsabilità comune e la protezione di ciò che è nostro forse potrebbe aiutare ad affrontare questa materia da una prospettiva differente.
Francesco Boco