Roma, 26 feb – Dopo la scissione, Renzi riscopre la sinistra. O meglio, le sue parole d’ordine. Una su tutte: il lavoro, declinato in lavoro di cittadinanza. ‘Colpa’ di una rottura nel Pd che lo costringe ad una virata sui temi cari – almeno storicamente – a quella parte politica e che però, da qualche anno a questa parte, li ha abbandonati? Forse che sì, forse che no. Fatto sta che, dopo il tour negli Stati Uniti, l’ormai ex segretario ritorna alla carica.
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Le idee raccolte nel viaggio sulla costa occidentale americana sono consegnate, appena messo piede in Italia, in un’intervista al Messaggero. “Il lavoro non è solo stipendio, ma anche dignità”, spiega Renzi, dissertando anche sul tema in punta di diritto: “Garantire uno stipendio a tutti non risponde all’articolo 1 della nostra Costituzione che parla di lavoro non di stipendio”, dice, contestando l’idea grillina del reddito di cittadinanza, che “nega il primo articolo della nostra Costituzione”.
Bene, bravo. Data per scontata l’assurdità del reddito di cittadinanza, peccato che il Jobs Act – sempre difeso a spada tratta, anche ora che mostra i suoi totali limiti – abbia tutto tranne che elevato la dignità dei lavoratori, aggiungendo al contrario ulteriori elementi di precarietà e, una volta finiti gli incentivi, fatto crollare ancora di più il ricorso a contratti a tempo indeterminato, mentre i voucher hanno continuato a crescere e la disoccupazione è tornata a risalire pericolosamente. Sembra essersene accorto anche lui, quando ammette che la riforma è stata solo “un tassello al quale ne vanno aggiunti altri per rispondere alla questione di fondo: come sostenere un sistema di protezione a chi resta fuori dal processo di innovazione”. Ecco allora la risposta: “Fermare il progresso o pensare di rallentarlo è assurdo. Compito della politica è ora affrontare i problemi che derivano dalla rivoluzione digitale e i costi in termini di perdita di posti di lavoro“, ad esempio attraverso “non una rendita universale ma con il lavoro di cittadinanza“.
Renzi non affronta il tema nello specifico, non dà ipotesi di come questo ‘lavoro di cittadinanza’ possa strutturarsi. Se vogliamo fare delle ipotesi attingendo al mondo della socialdemocrazia al quale l’ex sindaco di Firenze non ha mai fatto mistero di ispirarsi (basti pensare al modello Flexicurity, creato proprio dalle socialdemocrazie nordiche, declinato all’italiana appunto con il Jobs Act) allora possiamo supporre che il lavoro di cittadinanza non sia che un’ulteriore accelerazione sul tema. Come? Renzi parla di sistema di protezione ma non si riferisce solo ad assegni di disoccupazione o altre misure simili, peraltro già esistenti. Parla proprio di lavoro. E allora è più che lecito pensare al sistema tedesco, dove il disoccupato non è un mero soggetto passivo beneficiario di generici sostegni pubblici, ma un soggetto attivo e fattivamente coinvolto, oltre che nella ricerca di un nuovo contratto, anche in attività lavorative ‘extra’ necessarie per mantenere le indennità previdenziali che percepisce. In gergo di parla di mini-jobs, lavori retribuiti pochi euro l’ora ma che consentono al lavoratore di continuare ad essere sussidiato dallo Stato. Con non pochi benefici: le imprese tedesche possono sfruttare manodopera a bassissimo costo, la competitività cresce e tutto ciò è alla base – insieme ad una moneta, l’euro, sottovalutata rispetto all’economia della Germania – della forza (alias concorrenza sleale) di Berlino in termini di export. A perderci è solo il lavoratore, che mantiene sì una parte del proprio reddito antecedente l’ingresso nel novero dei disoccupati, ma senza alcuna prospettiva di medio-lungo periodo che è poi alla base di una sana politica del risparmio, quella per inciso grazie alla quale (con i risparmi messi da parte negli scorsi decenni) la bomba sociale italiana ancora non è del tutto esplosa.
Filippo Burla
1 commento
Mmm… chiamarli più semplicemente lavori forzati?