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Revenant: il narcisismo di Inàrritu, noioso e fine a se stesso

by La Redazione
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revenant.dicaprioRoma, 18 gen – La sensazione è che DiCaprio dovrà mettersi l’anima in pace: l’Oscar non lo becca nemmeno stavolta. O forse magari premiando l’esistenzialismo un po’ superficiale di Inàrritu, la sua performance da “Cast Away delle nevi” si rivelerà vincente. Revenant tradisce un po’ le aspettative (forse solo del sottoscritto), di vedere qualcosa in più rispetto al trailer dove come in uso negli ultimi anni praticamente era già stato “spoilerato” tutto. E invece in più Inàrritu ci regala tanto “freddo”, un Canada sterminato e selvaggio, belle inquadrature, virtuosismi alla macchina da presa,  qualche performance alla “bear grylls” del povero Leo, costretto a mangiare fegati di bisonte e scuoiare cavalli come nulla fosse. Sì, ma come direbbe il Marchese del Grillo, “bella la boiserie, bello tutto” ma poi? Appare da subito evidente che non sarà la narrazione il punto forte del film, visto che le cose vanno in modo abbastanza scontato, con il nostro eroe che dopo il torto subito dovrà superare una serie di prove ardue per ottenere la sua vendetta.

Passata la prima ora, con il piano sequenza della battaglia iniziale che rappresenta probabilmente il momento migliore della pellicola, i fatti sono abbastanza determinati e comincia l’estenuante calvario di Hugh Glass (DiCaprio). E’ qui che forse dovremmo cogliere un messaggio che non arriva, non empatizzando poi troppo con il nostro Leo nemmeno nei momenti più estremi, dove l’essenzialità e la crudezza dello spirito di sopravvivenza umano, dovrebbe sottoporsi al confronto con la bellezza di una natura ancora primitiva. E’ qui che forse Inàrritu dà il meglio, nelle fotografie e nelle inquadrature alla National Geographic. Ma per il resto in Revenant, oltre la noia c’è ben poco. Non c’è epica, non c’è spazio metafisico e il messaggio “esistenziale” è anche abbastanza scontato, con questo destino che siamo costretti a percorrere ma che poi alla fine non ci appartiene fino in fondo, perché è Dio che tutto sommato decide. Frasi come “Non posso morire perché sono già morto”, poste nel punto apicale del film e che dovrebbero suscitare qualcosa, diciamo che a voler essere buoni non sono proprio il massimo dell’originalità. revenant

Sta di fatto che questo calvario, con il nostro DiCaprio un po’ Gesu Cristo che invece del deserto di sabbia si scontra col deserto di ghiaccio è una rottura. E non è tanto il problema della “lunghezza” o della “pesantezza”, è che questa pesantezza non è giustificata. Non è giustificata dal dramma individuale del figlio Hawk, non presente nel libro da cui è tratto il film ed inserito ad hoc per dare un po’ di giustificazione alla scelta del protagonista e un po’ di “politically correct” in pasto all’opinione pubblica (il figlio è un mezzosangue indiano), ma nemmeno dagli intervalli onirici dei sogni “cristianeggianti” di Hugh, tra visioni, uccellini che escono fuori dal petto e chiese diroccate in mezzo alla neve. Come sottolineato da una parte della critica “non c’è epica, non c’è mistica, non c’è filosofia, non c’è Storia: c’è solo solennità”. E nemmeno la minima empatia con i personaggi, che rimangono sullo sfondo dietro le concezioni ideologiche e il manierismo di un Inàrritu fine a se stesso. Con la sensazione, come detto, che i grugniti, lo zoppicare, la carne cruda, la sofferenza, potrebbero non bastare ad un DiCaprio che cerca l’Oscar con la stessa disperazione con cui Hugh Glass cerca di vendicare suo figlio.

Davide Di Stefano

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6 comments

Milo 18 Gennaio 2016 - 12:53

È vero: mancano epica, mistica, eroismo, o quanto meno sono poco sviluppate. La mistica, per dire, è più una sorta di follia legata al dolore della perdita umana. È un lavoro soprattutto estetico e, in realtà, abbastanza realistico nella sua dinamica (il fattore fuori dal comune è solo la capacità di sopravvivenza del personaggio pure alla gangrena, che è sostanzialmente il fattore portante). Perché ragazzi, non aspettiamoci che il west fosse come ce lo rappresenta Tarantino, che è “figo” ma totalmente di fantasia. Una freccia ti ammazza se non subito per dissanguamento, un orso ti sbrana in 30 secondi, il freddo ti annichilisce fino a ridurti uno zombi, gli indiani d’America erano cattivi tanto quanto i bianchi (e spesso pure fessi, visto che si alleavano coi coloni inglesi o francesi solo per darsele meglio tra loro).

La prevalenza estetica non è di per sé un male, certamente è bloccante perché non èsvolgibile narrativamente, e poi gli è venuto bene. L’atmosfera esistenzialista necessariamente è data dalla mancanza di ogni riferimento della propria vita, quindi il figlio bastardo è necessario per far sì che anche quel contatto con la propria persona venga reciso. Altrimenti si sarebbe dovuto sbattere uno in mezzo al nulla e magari fare monologhi su monologhi e allora ve la sognate la pesantezza! 😀

Ha voluto ispirarsi, secondo me, a Dersu Urzala sia romanzo sia pellicola (la scena dove l’indiano lo salva dalla bufera con una capanna di rami improvvisata assomiglia a quella in cui l’ometto della taiga salva l’esploratore russo con una capanna di canne), e c’è riuscito abbastanza.

Bisogna solo abituarsi a vedere anche questo tipo di lavori. Vi assicuroche è molto bello, ma di una bellezza che non èlegata all’adrenalina, totalmente stemperata nelle scene di “nulla di umano” della natura selvaggia e spietata.

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SSL1900 18 Gennaio 2016 - 1:31

A me invece è piaciuto. Trovo questa pellicola di Inàrritu quasi jungeriana nello sguardo distaccato e freddo con cui ci narra le vicissitudini dello sfigato Hugh Glass. Al contrario del masturbatorio e autoreferenziale lavoro precedente, Birdman, qui Inàrritu ci dona un’epica che parte dal basso, degli ultimi, una tragedia greca delle piccole vicende, scevra dalle caciarate e del belletto a cui purtroppo ci hanno troppo spesso abituato i film d’ambientazione storica made in USA. Il cinema è anche questo: poesia dell’immagine; e non dobbiamo per forza cercarci sempre grandi costrutti dietro.

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Anonimo 19 Gennaio 2016 - 2:42

Io invece di dare sempre soldi agli usa ho comprato un paio di film Italiani ,ed ho buttato un po’ di americanate nel cassetto che uso solo per l audio video

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Anonimo 19 Gennaio 2016 - 2:46

A quando un film americano su Yroshima e Nagasaky ?
Su Dresda ?
Per dopo almeno ci ha pensato Oliver stone con
The Untold History of the United States

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Pino Rossi 19 Gennaio 2016 - 5:40

D’accordissimo con la recensione. Inoltre, a parte il virtuosismo tecnico e le bellissime immagini e piani sequenza (ma ormai lo sappiamo, basta un po’ di talento e tanti soldi, non stupisce più nessuno), l’apologia della vendetta mi ha particolarmente infastidito. Oramai il nostro immaginario deve essere quello di un gorilla. Ucciso il cattivo, nel modo più violento possibile, e facendolo soffrire amputandogli due dita, posso finalmente ritenermi soddisfatto. Ma andassero a cacare questi americani. Se a loro basta averlo più lungo per essere felici, noi almeno, che abbiamo i congiuntivi, smarchiamoci. Il film non merita i soldi del biglietto. Scaricatelo, che tanto ad hollywood ne hanno a sufficienza. Andate invece a vedere “Non essere cattivo” opera postuma di Caligari, meraviglioso film italiano, che quello si li merita i nostri 8 euro.

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Monica 19 Gennaio 2016 - 7:00

Film bellissimo per la quadrimensionalita’, l’ evidente concetto dello yng e dello yang. Fotografia perfetta.
“Non essere cattivo” opera postuma di Caligari, d’ accordissimo con Pino Rossi, è film ugualmente da Oscar. Ed è Italiano.

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