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Il richiamo agli antichi Lupercalia nella protesta dei pastori sardi

by Marzio Boni
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Roma, 12 feb – In questi giorni è giunta alla ribalta della cronaca la protesta dei pastori sardi che, impoveriti dai prezzi stracciati a cui viene acquistato il latte di pecora e di capra, hanno gettato per strada interi fusti ripieni del prezioso alimento. Non ci soffermeremo in questo articolo sulle ragioni della protesta, ovviamente fondate e giustissime. E’ sotto gli occhi di tutti il suicidio imposto dalle politiche europee che costringono il “consumatore” italiano a bere il latte proveniente dall’est Europa, a discapito degli allevatori nostrani, costretti a gettare o svendere i propri buonissimi prodotti, nell’indifferenza generale.

Non può passare inosservata la coincidenza di questa protesta con il rito dei Lupercalia, che si celebrava nell’antica Roma alla metà di febbraio.  Si trattava di un rituale di purificazione e teso a stimolare la fecondità. Ovidio nei Fasti racconta che, nonostante il ratto delle sabine, i Romani non riuscivano a rendere le donne feconde. Recatisi in un bosco sacro a Giunone per chiedere rimedio, la Dea fece udire la sua voce: “Un sacro caprone penetri le donne d’Italia!”. La trasposizione letterale faceva naturalmente inorridire, ma un indovino etrusco seppe tradurre l’oracolo: sacrificò un capro ricavandone delle strisce dalle pelli, con cui percuotere le donne. Nove mesi dopo, gli effetti risolutivi del rito furono chiari a tutti. Proprio queste strisce di pelle, chiamate februe, diedero il nome al mese di febbraio, periodo dedicato, da un punto di vista religioso, alla purificazione e a preparare l’avvento della primavera, con la rinascita della fertilità.

Durante il rito, i celebranti, chiamati luperci, sacrificavano un capro nella grotta del Lupercale, dove si diceva fossero stati allattati dalla lupa Romolo e Remo. Col sangue dell’animale ucciso i luperci toccavano la fronte di due fanciulli della nobiltà romana, che detergevano subito dopo con un panno di lana imbevuto di latte. Quindi tagliavano la pelle caprina in piccole strisce per farne delle fruste con le quali, correndo nudi intorno al Palatino, colpivano le persone che si facevano trovare sul loro percorso e in particolare le donne, che vedevano in questi colpi una sorta di purificazione simbolica atta a garantire loro la fertilità.

Nonostante tutto ciò, anzi forse proprio per tanti di questi motivi, i padri della Chiesa cristiana identificarono il caprone con il diavolo e finanche alle fate arrivarono ad attribuire zampe di capra. Degni epigoni dei giorni nostri sono i vescovi e lo stesso Papa, strenui sostenitori e fautori dell’immigrazione incontrollata con la quale, per usare un termine abusato, dovremmo “contaminarci”  volentieri. Eppure gesti forti, come quelli dei pastori sardi, possono essere considerati un ottimo auspicio per rendere di nuovo fertili le nostre terre, per preparare una nuova primavera in cui la nostra civiltà possa risorgere feconda. Tornare a nutrirci del latte delle nostre pecore e delle nostre capre, metaforicamente può essere interpretato come un ritorno alle origini, all’archetipo di forza e purezza che solo può ridestare le energie profonde della stirpe.

Marzio Boni

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1 commento

Piero 12 Febbraio 2019 - 5:19

Leggere Marzio Boni (che secondo me e’ uno pseudonimo di Scianca) mi mette sempre di buonumore: i suoi sono articoli colti e profondi, ma mai pedanteschi. Bravo!

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